Nella memoria la "restitutio" della dignità, il senso di una sfida

 

Al fondo
del crepaccio dei tempi
nel favo del ghiaccio
attende, cristallo di fiato,
la tua non intaccabile
testimonianza.

Paul Celan, Cristallo di respiro, 1965

 

 

«La vera testimonianza non implica solo

 il campo del diritto, le aule dei tribunali o la verità storica.

La testimonianza risponde solo di colui

che la sostiene attraverso

l’unico supporto che ha, ovvero la parola»[1].

 

 

Questa riflessione nasce dall'interesse pluriennale sulla Didattica della Shoah e, soprattutto, dall'esperienza progettuale presso L'IIS-LS "G. Galilei" di Trebisacce.
Impegno professionale e cittadinanza attiva proseguono di pari passo nel recupero della memoria delle atrocità europee nel periodo della Seconda Guerra mondiale, con lo sterminio nazista, l’esilio dalmato-istriano e i delitti delle foibe senza lasciare in secondo piano gli altri genocidi.

Da diversi anni mi occupo della “parola” tramandata della Shoah. Penso di averla problematizzata in diversi modi, mai contenta di possederne una definizione certa. Sarebbe, d’altronde, il paradosso del paradosso, quale quello che storicamente si è manifestato con l’”accaduto”, direbbe Paul Celan. Proprio per lasciarne indenne l’opacità dei contorni, lo sfilacciamento dei significati, è necessario doverne restituire problematicità e liquidità mantenendo la parola. La parola rende testimonianza, ma le sue fattezze sono labili e impossibili a qualunque definizione. Proprio questa indeterminatezza apre a sempre nuove possibilità di interpretazione.

 

Lo studio sullo sterminio nazista implica, infatti, diversi piani di comprensione che vanno mantenuti se non si vuole cadere nella banalità delle semplici commemorazioni o nella sacralizzazione dei singoli episodi. D’altra parte, nel momento in cui cerchiamo un’identità come europei, la comprensione della Shoah implica, oltre alla responsabilità dell’ascolto, soprattutto quella di rileggere la natura comunitaria che ha sempre, sullo sfondo questo crimine. La Shoah è stata e fa parte della storia europea, il recupero del passato non può essere demandato alle sole vittime o agli eredi. E’ un fardello di cui, mi pare, l’Europa non abbia ancora piena consapevolezza, mentre sono le singole nazioni ad essersene addossati il peso del ricordo, seppure circoscritto ad eventi commemorativi. Con la scomparsa biologica dei testimoni diretti, non basta il passaggio del testimonio del ricordo ai sopravvissuti di seconda e terza generazione, perché la responsabilità dello sterminio non si è dissipata con la fine della guerra e i processi ai colpevoli. Esiste, infatti, una seconda e terza generazione di coloro che invece accolsero le "leggi razziali" fasciste,  assistettero imperterriti e attoniti, indifferenti o impauriti e che, comunque, non presero parte direttamente alle deportazioni e all’annientamento del popolo ebraico, di zingari e omosessuali, testimoni di Geova e disabili. Una popolazione che ha preferito l’oblio alla presa di coscienza, che ha abbandonato le proprie responsabilità illudendosi di non poter essere in grado di cambiare il disastroso esito.

 

La memoria istituzionalizzata o il dovere della commemorazione, così come prescritto per decreto legislativo, non può essere intesa se non come la condivisione della comunità ad accogliere la dinamicità di pensieri, ricordi, testimonianze in perenne movimento tese comunque a restituire, ovvero portare ad essere, ciò che è stato e quanto è stato tolto. Già Freud avvertiva che «la memoria non è presente in forma univoca ma molteplice»[2] e questo è tanto più indicativo per la Shoah, la cui complessità e il cui paradosso deve essere mantenuto per non scadere in forme ieratiche o di banalizzazione. «Quanto del mondo concentrazionario è morto e non ritornerà più? Quanto è tornato o sta tornando?» domandava Primo Levi alla fine di quella triade di libri dedicata alla sua testimonianza su Auschwitz[3], e ancora «Quanto sicuri viviamo noi oggi?»[4] cogliendo quella tensione tutta contemporanea che muove i nostri pensieri di fronte ai fondamentalismi e alle stragi del terrorismo rilevando ancora le maglie aperte lasciate dagli eventi tragici della Shoah. Allora per una corretta comprensione dello sterminio nazista bisogna mantenere l’intreccio tra fanatismo, burocratizzazione e tecnologia che disegnarono l’ideologia nazista senza tuttavia enfatizzarne l’irripetibilità al fine di mantenerne il carattere di denuncia. Deve, cioè, restare un fatto accessibile a rielaborazioni e interpretazioni, rendersi transitiva, trovare mediazioni che oltrepassino il semplice dovere. In questo senso la letteratura e le attività artistico-cinematografiche rispondono a questa esigenza di re-stituire un tempo e una dignità umana allargando il ventaglio dell’immaginazione e producendo nuova memoria. Elaborazioni che, nella condivisione, diventano humus comunitario, collante di valori. Riflessione che deriva dalla problematicità della testimonianza stessa, su cui Levi stesso sollecita a pensare. I testimoni – così Levi - in quanto superstiti, non possono avere la credibilità dei sommersi, ai quali, paradossalmente, non è dato più raccontare quanto avvenuto[5]. E, in ogni caso, per quanto l’esperienza raccontata rimanga particolare, non integrale, descrive la drammaticità e l’annientamento dei sommersi pur ritagliando, selezionando parole e fatti. Un’esperienza può diventare un ricordo perché aggiungiamo a questa una serie di caratteristiche che prendiamo dal mondo non psicologico, dal mondo esterno e la collochiamo in modo temporale, oltre che spaziale. E soprattutto, perché nel racconto si presuppone un altro cui raccontare. Inoltre, se l’esperienza integrale non può accompagnarsi al ricordo, questo, pur nella sua incompletezza e ambiguità, si delinea solo in quanto esiste un riconoscimento pubblico. Deve poter essere riconosciuta e narrata secondo pensieri, sensazioni, ricordi, emozioni compresi non solo verbalmente ma nel loro significato più profondo dagli altri. Il dolore e la sofferenza interiori, nell’esprimersi, cercano una condivisione. E nel racconto si compie comunque la testimonianza di quel dolore cosicché «È come se il nostro ricordare anche per chi non c’è più completasse per gli altri, per i sommersi appunto, il percorso che conduce dall’impossibile linguaggio privato alla lingua pubblica, dal “qualcosa” alla parola che tutti possiamo intendere, restituendo il debito che abbiamo con chi ci ha aiutato a compiere lo stesso percorso»[6].

 

Il ricordare diviene, pertanto, un farsi carico, anche a distanza di tempo e generazioni, un impegno carico di significati etici, assunto in quanto esseri umani che percepiscono il proprio pensare e sentire consapevolmente e che comprendono la propria interiorità e il proprio esistere come parte e dono di una comunità più ampia. È l’impegno alla reciprocità. «Ricordando, costruendo la memoria del mio passato testimonio anche per loro, ricordando dichiaro la mia umanità, e di coloro che mi hanno offerto questa possibilità. Si vorrebbe di più, certo, quel dolore rimane impensabile, ma così non svanisce del tutto, perché me ne faccio carico anche io»[7]. Della completa dedizione che io devo all’altro ne ha parlato Emmanuel Lévinas in un testo del 1980, Totalità e infinito, dove, proprio dal dramma della Shoah, l’autore si chiede come possa realizzarsi una cultura senza violenza, omicidio, guerra, campi di concentramento. Nella «fenomenologia del volto dell’altro»[8] Lévinas pone a fondamento del rapporto con l’altro la responsabilità intesa come prerogativa per la libertà. «Una civiltà che sappia conservare la memoria dell’etica come cuore della condizione umana potrà spezzare la spirale della sopraffazione che soffoca la storia. Ecco perché, nella visione di Lévinas, più della reciprocità e del dialogo conta la responsabilità. La stessa libertà è effettiva solo nella piena adesione alla vita responsabile e generosa, non più “egologica”, cioè incentrata sull’io»[9].

 

L’insensatezza della Shoah ha continuato, oltre il lager, a mietere vittime. Walter Benjamin, pur non reggendo al peso del ricordo, ha lasciato nelle celebri Tesi sul concetto di storia l’ipotesi salvifica di una «scrittura delle rovine»[10], del recupero di particolari nella rammemorazione, nel dar voce ai vinti. Il passato riemerge a fatica, tra silenzi e ripensamenti, tracce, residui. Una rimarginazione della lacerazione storica prodotta dalla Shoah non è neppure pensabile. Anzi, bisogna mantenerne l’incompiutezza, non pretendere una conciliazione perché è proprio in questo status di verità remota, mai raggiungibile, si colloca lo streben del ricordo, ad impedirne l’oblio.

 

E l’insensatezza della Shoah continua a mostrarsi in altre forme di deportazione e sfruttamento umano. Le radici ideologiche, attecchite, anche qui paradossalmente, nella ragione illuministica, si  reificano nel mostruoso quasi come una seconda natura, laddove l’uomo perde il senso etico del proprio esistere asservendo forme di potere totalitario e il totalitarismo della tecnica e dell’economia.

 

La memoria, quindi, non può essere confusa con la storia.

E, d’altra parte – ricorda Enzo Traverso – «L’insegnamento della Shoah non può ridursi alla semplice illustrazione di un evento della storia, ma implica una riflessione sociale ed etica sui nostri valori, il nostro rapporto con il passato e il nostro comportamento sul presente»[11]. Dello stretto rapporto tra passato e presente ne avevano parlato già i maggiori storici del Novecento. Benedetto Croce intendendo la storia sia come «historia rerum gestarum» sia come «res gestae» evidenziava il bisogno conoscitivo presente che spinge a scrivere di storia volendo rispondere alle domande teoriche e culturali del presente. Per cui ogni storia è storia contemporanea[12]. Per Gioacchino Volpe «la storia si scrive coi documenti del passato e con quelli del presente, con le carte scritte e con l’osservazione e le suggestioni dell’oggi» per cui la storia si modifica ad ogni generazione che la riscrive seguendo e inseguendo il proprio presente.

 

Il tema della Shoah è una finestra sulla storia, suggerisce a pieno titolo Zygmunt Bauman, perché mette in evidenza contraddizioni e matrici.

La memoria, dunque conserva un valore imprescindibile nella formazione della persona che si muove nel presente, perché attraverso la memoria riusciamo a dare un senso alla storia, alla nostra storia quotidiana e contemporanea, a comprendere la nostra identità anche come europei, non solo come italiani.

 

La Shoah è la disfatta della ragione, nutrita nel pensiero illuminista, nella civiltà moderna. Il significato non è intellegibile. Sfugge a qualsiasi tentativo di comprensione. Eppure, paradossalmente, è un fatto umano. Questo paradosso è la zona d’ombra che può ripresentarsi e che si ripresenta nella vergogna degli altri genocidi, nella violenza genocida del fondamentalismo islamico (terrorismo), ogni volta che si sopprime una vita umana. E’ quel cordone ombelicale che continua a legarci al contesto sociale da cui è scaturito l’orrore. Viviamo nello stesso mondo che ha generato Auschwitz.

 

Ma per una lettura critica e attualizzata dello sterminio dei nazisti, evitando di “normalizzare” e giustificare il passato, dobbiamo ancorare la memoria a una rete di conoscenze precise e dettagliate:

-          tipologia e cronologia dei campi;

-          caratteristiche e finalità della politica concentrazionaria e i suoi mutamenti;

-          tappe e strumenti della Shoah;

-          composizione dell’universo dei prigionieri;

-          rapporto e autonomia fra sistema dei lager e guerra;

-          le testimonianze dei sopravvissuti.

Sono coordinate minime che ci permettono di focalizzare quanto accaduto e la memoria che fa rivivere quegli eventi. Ci sono pericoli in questa memoria da evitare: quello di collocare il lager al di là della storia o di cadere nella predicazione moralistica con il suo corollario di adesioni sentimentali e di reazioni di rigetto. 

Di questi parametri conoscitivi si compone la sfida didattica e pedagogica. Una sfida che vuole ogni volta trarre dalla “Gorgone” del ricordo quelle domande irrisolte, ma paradigmatiche, fondamentali nell’assunzione di responsabilità e corresponsabilità del vivere civile e che ci spingono, su esortazione di Primo Levi, a perpetrare la testimonianza di ciò che è stato.

Diversamente, l’insegnamento della Shoah non avrebbe senso.

 

Così come non avrebbe senso la Giornata del Ricordo se non comprendessimo il fil rouge fra i tragici avvenimenti collegati alle foibe e all’esilio dalmato-istriano con il clima generato dai totalitarismi. La violenza inaudita che ebbe luogo dall’autunno del 1943 alla primavera del 1945 nei territori del confine orientale italiano non può trovare giustificazioni nell’appartenenza etnografica o politica delle popolazioni quanto piuttosto ricorda, come viene evidenziato nel testo della commissione italo-slovena, la responsabilità degli Stati nelle stragi[13]. Fatti illuminanti sul presente, laddove ancora oggi l’odio tra le etnie si alimenta di rancori esasperati e di pregiudizi razzisti, come nel caso palestinese tra musulmani ed ebrei e  tra le diverse etnie siriane. Emblematico è lo sviluppo di correnti estremiste come l’ISIS, sfociato nel terrorismo. Il ricordo delle persecuzioni fascista e slava promuovono la riflessione sul loro superamento in un quadro politico di integrazione, che promuova il rispetto della persona umana e la solidarietà tra i popoli nonché l’abolizione delle frontiere, qual è quello europeo[14]. Nell’analisi di quegli atroci avvenimenti rimane tuttavia aperta una questione cruciale che denota l’attualità dei temi e che accomuna sia i profughi istriani e dalmati che le famiglie coinvolte nello sterminio nazista. In entrambi i casi, infatti, è mancata e viene ancora richiesta con grande enfasi, la restituzione dei beni sottratti loro.



[1] G. Rotiroti, Introduzione, in Petre Solomon, Paul Celan. La dimensione romena, a cura di Giovanni Rotiroti, Mimesis, Milano-Udine, 2015, p. 27.

[2]  S. Freud, Lettera a Fliess del 6 dicembre 1896 in Le origini della psicoanalisi. Lettere a Wilhelm Fliess. Abbozzi e appunti, 1887-1902, Boringhieri, Torino 1961, pp. 148-155, p. 149

[3] P. Levi, I sommersi e i salvati, (1986), Einaudi, Torino 2003, p. 11

[4] Ivi, p. 135

[5] P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p 64: «Non siamo noi, i superstiti, i testimoni veri. … noi sopravvissuti siamo una minoranza anomala oltre che esigua: siamo quelli che, per loro prevaricazione o abilità o fortuna, non hanno toccato il fondo. Chi lo ha fatto, chi ha visto la Gorgone, non è tornato per raccontare, o è tornato muto; ma sono loro, i “mussulmani”, i sommersi, i testimoni integrali, coloro la cui deposizione avrebbe avuto il significato generale. Loro sono la regola, noi l’eccezione»

[6] F. Cimatti, L’impossibilità di un’esperienza integrale, ovvero il paradosso del ricordare, in  P. Coen – G. Violini, La memoria e la storia. Auschwitz, 27 gennaio 1945. Temi, riflessioni, contesti, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010, p. 253

[7] Ivi, p. 254

[8] E. Levinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 1996, pp. 199-224

[9] R. Mancini, Trasformare l’economia. Fonti culturali, modelli alternativi, prospettive politiche, F. Angeli Ed., Milano 2014, p. 111

[10] M. Piazza, La restituzione del passato tra verità e finzione. Modelli filosofici e narrativi nella recente letteratura della Shoah, in P. Coen – G. Violini, La memoria e la storia. Auschwitz, 27 gennaio 1945. Temi, riflessioni, contesti, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2010, p. 289

[11] E. Traverso, Insegnare Auschwitz. Questioni etiche, storiografiche, educative della deportazione e dello sterminio, Bollati Boringhieri, 1995, p. 4

[12] B. Croce, Teoria e storia della storiografia, 2 voll. a cura di E. Massimilla e T. Tagliaferri, Bibliopolis 2007

[13] Francesco Alberti, Corriere della Sera, 4 aprile 2001, riporta il testo definitivo dell’analisi bilaterale in cui, ponendo fine, alle facili javascript:strumentalizzazioni politiche, venivano evidenziati i caratteri cruenti di ideologie nazionaliste tese ad escludere le diversità. In http://www.storiaxxisecolo.it/rassegnasta/rassegna_cor040401a.htm

[14] Cfr. Discorso del Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi il 9 febbraio 2005 in http://www.storiaxxisecolo.it/dossier/Dossier1a8d.htm

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SITOGRAFIA

http://www.storiaxxisecolo.it/rassegnasta/rassegna_cor040401a.htm

http://www.storiaxxisecolo.it/dossier/Dossier1a8d.htm