Memoria come resistenza. Una narrazione

Di fronte ai tentativi di revisionismo e negazionismo che procedono di pari passo a derive populiste e a rinascite nazionaliste, anche il mantenimento della commemorazione del 25 aprile come Giorno della Liberazione è un atto di resistenza! In questo contesto, in cui riaffiorano ideologie fasciste e si moltiplicano episodi di xenofobia e di antisemitismo, il recupero della memoria dovrebbe ossigenarci o, meglio, dotarci di anticorpi necessari a ribadire i valori democratici nel rispetto delle diversità e della persona umana. Le politiche d’inclusività e di accoglienza, uniche a garantire la pace, si costruiscono sulla memoria storica e, quindi, sul mantenimento obiettivo dei fatti storici, scindendoli dal presente ma per rispondere alle domande cogenti del presente.

Memoria dunque come resistenza per ricordare che la Liberazione fu determinata da quel nucleo fondante di partiti che diedero vita alla Costituzione e che non sono più gli stessi.

Siamo consapevoli che le memorie risentono di politiche che affermano significati, luoghi, fatti a discapito di altri come avvenne in clima di guerra fredda. E’ successo in Italia all’indomani della seconda guerra mondiale accogliendo le tesi del De Felice e avviando una narrazione egemonica sul “bravo italiano, cattivo tedesco”, dimenticando di processare i criminali di guerra; è successo in Francia con i tentativi negazionisti dello sterminio; è successo in Unione sovietica dove il ricordo dello sterminio ebraico è stato cancellato per far posto ad una eroicizzazione dell’Armata rossa che aveva combattuto contro il nazismo. Sta forse succedendo la stessa cosa ora che si rischia di dimenticare il valore della Brigata ebraica nel contesto della resistenza? Stiamo forse piegando la commemorazione ad un uso strumentale, di parte, della storia contemporanea? Il revisionismo sulla resistenza non sta forse facendo prevalere l’idea che singoli fatti cruenti valgano per il tutto dimenticando il significato politico nella liberazione italiana?

La memoria come resistenza ci invita ad una responsabilità etica per cogliere, con una certa preoccupazione, quei segnali della modernità ancora funzionanti che determinarono la Shoah e, di fronte ai quali, non si deve neppure banalizzare quell’evento unico nella storia dell’occidente civilizzato, che non avremmo mai voluto sperimentare, equiparandolo alla tragedia, comunque immensa, delle immigrazioni. Dovremmo, piuttosto, tentare di coniare una nuova terminologia per descrivere questa nuova tragica realtà legata alle morti degli immigrati in mare e alle guerre.

 

La resistenza responsabile della memoria si esprime nelle narrazioni e nelle testimonianze che sono un sicuro baluardo contro la sistematica rimozione del passato, contro ogni tentativo di omologare la storia, rimuovendone il suo aspetto scandaloso e ingombrante, il sangue di cui gronda ad ogni passo, le sofferenze e le angosce dei singoli. Resistere perché, come diceva Elie Wiesel:

 Non dobbiamo consentire che il nostro passato diventi il futuro dei nostri figli.

Ed è appunto con una narrazione che voglio testimoniare la resistenza non solo mia, ma della mia generazione, alla quale sono chiamate le generazioni future, dal momento in cui sta per concludersi il tempo dei testimoni diretti, la cosiddetta “era del testimone”.

 

Innanzitutto, cosa intendo testimoniare? Che un fatto eclatante come l’internamento di mio padre nei lager tedeschi è stata rimossa dalla mia famiglia e che solo dopo undici anni dalla sua morte ho realizzato che ciò che mi arrivava a sprazzi non era solo frutto del ricordo personale di mio padre, ma memoria che doveva divenire collettiva. Inseguendo ciò che non può più raccontarmi nelle tracce lasciate dai libri di storia, dai diari dell’Esercito, dal racconto dei miei familiari, da quanto ricordo io stessa, ho potuto non solo ricostruire il senso del non detto di mio padre, riconoscerne la “sindrome del reduce”, ma stabilire la gravità storica che porta con sé la definizione di Internato militare italiano (Imi).

La resistenza degli Imi nota anche come ”l’altra resistenza”, quella “senza armi”, silenziosa, bianca, deve essere ancora compresa pienamente. Realizzata in quel “No” istintivo, corale e disarmato, della maggioranza dei militari del Regio Esercito (più di ottocentomila!) al rientro nelle file dell’esercito repubblichino, fu pagata per venti mesi consecutivi con vessazioni e maltrattamenti continui, col lavoro coatto, con la fame. Molti morirono. Ed è per questo che la Medaglia d’onore che è stata conferita a mio padre, Pasquale Rennis, il 2 giugno 2015 è dedicata a tutti gli Imi, che riuscirono silenziosamente, ma fieramente, ad opporsi alla dittatura. Per la Liberazione.

 

Francesca Rennis

25 aprile 2017

 

 

 

Il resoconto giornalistico di Tania Paolino sull'iniziativa dell'Amministrazione comunale di Tarsia:  cosenzainforma.it


Alcuni momenti della manifestazione