Adolescente immigrata, adulta cittadina del mondo

Abbiamo dimenticato il senso dell’emigrazione, la sua gravità nel senso più pieno del termine. Grava su chi è costretto a lasciare la propria terra, i propri affetti, le proprie cose. Grava ricominciare, reinserirsi assumendo lingua e abitudini del posto come proprie, farsi accettare. Grava superare i pregiudizi verso chi si propone suo malgrado come diverso. Cinquanta, sessant’anni fa anche la semplice immigrazione dal meridione a Roma o al nord d’Italia aveva il suo peso. Ricordo una bambina di dieci anni che inconsapevolmente viveva quel disagio. E gli anni sono trascorsi, quaranta e giù di lì. Spiego solo ora, con l’esperienza e la conoscenza del dopo, il mio vissuto di ragazzina appartenente ad un vero e proprio clan di calabresi a Roma. Nonni, zii, genitori emigrati per lavorare come impiegati statali. Gli uomini di famiglia, naturalmente. Le donne affaccendate nelle cure domestiche e nella crescita dei figli. Conoscenti? Manco a farlo apposta, altri paesani, tutti compari o comari. A scuola si faceva sentire il dialetto calabrese, ma non perfettamente cosicché ancora adesso posso definirmi “senza dialetto”, né calabrese, né romano se non nella cadenza. Una povertà che razionalizzando divenne poco tempo fa quella che definisco la mia risorsa. Nessun dialetto vuol dire non sentire un’appartenenza in particolare, ma sentirsi cittadino del mondo, nel senso dichiarato ironicamente anche da Gad Lerner nel libro “Tu sei un bastardo”. Alla fine sentirsi cittadino del mondo è un vantaggio, si evitano spigolature e irrigidimenti teorici che pongono al centro della propria identità il mito delle radici, il bisogno d'appartenenza, la retorica delle tradizioni e la paura del meticciato. Ora riesco a rivedere le risate dei compagni davanti ad un “per” troppo aperto e gli sforzi di mia madre a farmi dire “vuhio” con l’aspirato esatto con la giusta distanza, allora era frustrazione. Ma c’è di più, le ristrettezze e il rigore educativo che m’impedivano di prendere il volo della mia esuberanza perché femmina e quindi futura moglie e madre, sono rimaste piaghe nell’anima e nella coscienza. Rispecchiandomi, però, non vedo il ritratto di Dorian Gray, ma le rughe di un viaggio che non s’interrompe e che trova nel viaggio stesso il piacere di vivere e di confrontarsi. L’avventura continua.

 

Francesca Rennis