Violenza sulle donne. Una storia d'amore finita nel sangue. L'omicidio di Aiello Calabro

Potremmo cominciare dalle statistiche. Numeri, una quantità indescrivibile da cui non sarebbe possibile evincere la tristezza per l’inganno, la delusione per l’amore tradito. E’ la storia di ognuno che ci riguarda e ci segna nel dolore soprattutto se si parla al femminile poiché la donna è ancora la parte più fragile della nostra società. Non è riuscita nel tempo a scrollarsi di dosso la prepotenza maschile, quella che la riduce ad oggetto da marciapiede, ma neanche a indurre al rispetto nella propria famiglia.

L’alone di romanticismo che la voleva “regina della casa” un copione ipocrita per riconfermare un potere consolidato. A settembre del 2009 si chiude con un’assoluzione e un’intervenuta prescrizione su capi d’accusa “secondari”, per abbandono di minori e maltrattamenti, il processo nato dalle ulteriori indagini su un omicidio che invece la sentenza della Corte d’assise aveva riconosciuto nella sua efferatezza condannando il farmacista Sergio Caruso a trent’anni di reclusione benché con la clausola agghiacciante “a piede libero”. Consumato tra le mura di una rispettabile famiglia di Aiello Calabro il crudele fatto di sangue risale alla sera del 9 aprile 2002. Una storia che doveva essere d’amore si è macchiata di cupi risvolti criminali. Una convivenza difficile cui la vittima aveva deciso di dare un taglio scatenando la rabbia dell’aggressore.

 

E pensare che quel matrimonio avrebbe dovuto coronare un sogno d’amore sfumato in poco più di due anni con aggressioni da cui sempre più a stento riusciva a difendersi. E quella sera, per sfuggirvi, si era rifugiata nel bagno senza riuscire a fermare la mano che senza guardarla in volto avrebbe premuto sul grilletto stroncando la sua giovane vita. Aveva 31 anni Maria Rubini. Aveva lasciato il suo paese, Ruvo di Puglia, per venire a lavorare nel piccolo centro del Tirreno cosentino proprio nella farmacia Caruso. Per amore aveva acconsentito alle nozze e a vivere con la suocera. Era diventata madre da appena sette mesi e insieme alle cure per la sua bambina manteneva un diario dove aveva nascosto una ciocca di capelli. Non un ricordo caro, ma il richiamo costante alla sua condizione di vittima. Quella ciocca le era stata strappata durante uno dei tanti litigi.

 

Nella ricostruzione dibattimentale che ha ribaltato la testimonianza della madre del farmacista, che si era addossata tutte le colpe, l’omicidio è stato l’ultimo atto di una serie di violenze. Quelle violenze che legittimano l’intromissione delle istituzioni e del pubblico nel privato e di fronte alle quali vengono neutralizzate sia l’incapacità quanto la determinazione a ribellarsi. Comunemente si crede che la violenza sulle donne sia un fenomeno limitato e che interessi solo le fasce sociali più svantaggiate, mentre è diffuso, anche se ancora sommerso e sottostimato, toccando in modo trasversale i diversi strati della società. Una cultura di stampo patriarcale ha costruito pregiudizi che si ripresentano ogni giorno e che, senza saperlo, reificano azioni criminali contro le donne. In certe circostanze non è difficile sentire la frase “se l’è cercata lei” quasi a sottolineare una colpa, e insieme l’accettazione della “naturale” aggressività maschile. Si pensa che sia provocata dalle donne, mentre si dimentica che nessun comportamento può giustificare l’uso della violenza. Un altro pregiudizio duro a morire riguarda la convinzione che la soluzione debba essere trovata tra le pareti domestiche e che comunque la famiglia resti unita per evitare che i figli soffrano l’assenza di un genitore quando studi a riguardo hanno dimostrato l’importanza per la crescita dei bambini di un clima sereno con un genitore equilibrato piuttosto che uno conflittuale dove vi sono entrambi i genitori.

 

Francesca Rennis

25 gennaio 2011