La bellezza come movente etico. Eco-riflessioni


Statale 18

di Mauro F. Minervino - Ed Fandango

Se non ci fosse la Statale 18 gli spostamenti sarebbero molto lenti, si dovrebbe ancora usare parte di quella vecchia statale nata sulle ceneri della borbonica Strada per le Calabrie che asseconda le pendici dei monti dal Pollino fino alla catena costiera dell'Appennino Paolano. Non ci sarebbe turismo di massa con gli ingorghi estivi e non ci sarebbero stati neppure abusivismo e quella speculazione edilizia che si presenta nelle forme di complessi turistico-alberghieri, villaggi turistici, centri commerciali. Se non fosse stata costruita quest’arteria tanto imponente, esorbitante, non ci sarebbe stato l’ampliamento e lo snaturamento dei centri storici, ormai abbandonati a se stessi e il fuggi fuggi verso realtà economiche più fluenti per il mercato. La tabella di marcia rallentata con la convinzione che l’uomo che calpesta questi territori ne sia ancora soggiogato dalla lentezza come dalla bellezza incontaminata. Non ci sarebbe stata la corsa della malavita ad accaparrarsi il posto migliore per il controllo e lo sfruttamento del territorio, perché sarebbero mancati gli interessi attuali.

E’ un’idea alquanto romantica, suggerita dalla lettura del libro di Mauro F. Minervino Statale 18, edito da Fandango. “Natura intoccabile che basta a se stessa. Niente strade. Niente che faccia posto agli usurpanti, niente cemento, niente abitanti, niente turisti. Un eden estremo, indominato e brutale. Un eden tutto per me”. Così l’autore in un moto che definisce frutto di una “visione di follia” (p. 11) perché non si può tornare indietro se non su quella stessa strada alla quale con il suo racconto chiede quel senso che nella frenesia quotidiana invece sfugge. Più che nostalgia , una provocazione. Perché vivere la strada non è solo una questione di sicurezza stradale.

La strada porta con sé il vissuto delle persone, le loro relazioni sociali, le politiche messe in atto in quel territorio.

Nel momento in cui ne sente la necessità, l’uomo moderno afferma il suo dominio attraverso quel tratto di asfalto che trascina le merci e gli individui verso una civilizzazione che rivela il lato arcano di una violenza considerata naturale. Quella imposta da una ragione che pensa di poter controllare anche il progresso civile delle comunità che ne sono attraversate. Il Tirreno senza la sua statale avrebbe altre connotazioni, avrebbe mantenuto anche le sue povertà ancestrali, ma non ne avrebbe conquistate di altre, quelle connesse ad uno sviluppo motivato da profitti e dalla perdita di solidarietà sociale.

 

Quali sono, invece, le caratteristiche di questa strada oggi? Minervino con questo testo ci restituisce il diario di un viaggiatore disincantato, in cui tra autonarrazione e osservazione di ciò che passa o affianca la strada, emergono gli aspetti deleteri di una Calabria assoggettata al potere politico-mafioso, sotterrata da violenze inaudite, deprivata delle sue menti più eccelse o rassegnata al peggio.

In questo viaggio, che c’invita a fare con lui, prendiamo consapevolezza dei motivi che causano tanti tragici incidenti. La Statale scoppia nelle sue tante tragedie perché il suo tessuto sociale «lacerato e caotico» è incontenibile.

Guardando con gli occhi dell’autore incontriamo gli esempi più evidenti dello scempio storico-naturalistico che ricade sulla stessa socialità e sulla formazione delle identità locali in un continuum di rimandi in cui interno ed esterno si condizionano e formano vicendevolmente.

«Ma c’è altro che gli interessi edilizi e il saccheggio del territorio compiuto in mezzo secolo lungo tutto il percorso della Statale 18. Il sacrificio non ha ricevuto contropartite felici. C’è un’ineludibile moralità delle cose quando si parla di terra, di uomini e di natura. C’è un’altra contabilità che di questo olocausto è ingrato fare, ma che va fatta. Ilconsumo del territorio e l’invadenza delle costruzioni oggi non gravano solo sull’ambiente. Non sono solo più terreno sottratto alla natura e all’agricoltura, e perciò meno bellezza, meno aria, meno cielo e mare, meno acqua pulita e spazio per tutti. Costruire, abitare e pensare sono in fondo una cosa sola» (p. 16).

 

 

Pagine di analisi e di dura critica a quella compiuta “cocente disfatta culturale” che trova espressione esteriore in questo “bordo sfrangiato”, ma che significa modi di essere nella marginalità e nella illegalità. “Maceria dell’urbanesimo” ha assunto la sostanza di “città diffusa”, sobborgo come tanti nati dal ventre della globalizzazione, dove l’arroganza del mercato politico-mafioso trova la sua collocazione. «La strada è come un sifone che aspira tutto, una pancia sempre vuota e sempre piena che rimette all’esterno a ondate il suo bolo vivente e mai digerito» (p. 35).

«Con le formazioni sociali spesso in “liquefazione” – continua presentando la sua più che condivisibile proposta - l’unico argine sarebbe la presenza di regole legate ai valori intrinseci dei luoghi; una nuova soggettività sociale in cui riemergano “dalla società fluida” nuove, seppure modeste intese di tipo comunitario. Riaggregare la gente ai paesi, attorno ai valori ecologici e culturali di una misura sostenibile. Più in generale basterebbe favorire le opzioni di ri-territorializzazione e di difesa del patrimonio ambientale. Basterebbe infondo amare i luoghi, voler bene davvero alla terra, la propria» (p. 35).

 


Francesca Rennis

 


Presentazione ad Acquappesa 18 febbraio 2014