Las meninas ovvero «testimonianza autobiografica di una finzione»

di Francesca Rennis

Velasquez, Las Meninas
Velasquez, Las Meninas

La notevole mole di letteratura nata intorno al quadro di Diego Velázquez de Silva (1599-1660) evidenzia l’apertura ermeneutica alla quale il dipinto si presta.

Utilizzando le categorie di segreto e testimonianza messe in campo da Jacques Derrida in Dimora. Maurice Blanchot tenterò di evidenziare il paradosso dal quale sono scaturite tante interpretazioni e che può essere sintetizzato nel sintagma «testimonianza autobiografica di una finzione».

Una scelta che, secondo me, non oscura i risultati evidenziati da Michel Foucault che in Le parole e le cose ha dedicato il primo capitolo all’interpretazione del dipinto, né la tesi sostenuta da Paolo Spinicci che, riprendendo Foucault, sottolinea quale oggetto, o meglio “soggetto”, del quadro l’atto rappresentativo stesso[1].

La posizione in cui mi colloco a partire da Derrida, attraverso la lettura offerta dal saggio introduttivo L’indecidibile e la sua legge, permette di destrutturare gli elementi “esistenziali” portando alla luce verità altre.

Di fatto possiamo evidenziare, rafforzando l’ipotesi del saggio riferita alla differenza tra letteratura e atto giuridico, che nella rappresentazione figurativa non esiste incompatibilità tra finzione e testimonianza, ma che anzi proprio la convivenza dei due concetti riesce a dar vita ad un ampio ventaglio di possibilità ermeneutiche e quindi a suscitare il vasto interesse sulla vicenda raccontata nella dimensione spaziale colta dallo sguardo dell’autore.

Nella rappresentazione artistica il tempo converge verso un unico punto, quello del tempo senza tempo, laddove il concetto di idealità di Derrida e quello husserliano vanno a coincidere affermando il principio di identità: l’accadimento ovvero la testimonianza della finzione rappresentano nel segno del pennello, anziché nella parola, ripete infatti sempre identica a se stessa la sua verità.

 

Guardando il quadro osserviamo in primo piano l’Infanta Donna Margherita, attorniata dalle due damigelle Isabel Velasco e Agustina Sarmiento.

La particolarità del dipinto consiste nel fato che in un’unica dimensione figurativa vengono posti più ritratti (autoritratto, ritratto della coppia reale, ritratto di una scena di corte) e che da qualsiasi punto inizi l’osservazione l’Infanta, damigelle, nani, pittore o il maresciallo di palazzo) si stabilisce una serie di rimandi soprattutto se ci si pone davanti al punto di fuga, rintracciabile attraverso una serie di intersezioni lineari, nella mano del maresciallo di palazzo posta sul vano della porta.

La stessa lettura di Michel Foucault di Las Meninas evidenzia un gioco di sguardi che rinvia dialetticamente più come un ipertesto che come un testo alla centralità dell’atto rappresentativo, un tema per altro centrale nell’ambito della modernità che rimanda ad un gioco incerto tra finzione e verità. Un’ipotesi convincente se si permane all’interno dello spazio figurativo del dipinto che non esclude ulteriori interpretazioni nel momento in cui altre categorie permettono di cogliere quello sguardo che sfugge oltre i limiti del testo figurativo racchiuso nella cornice, in uno spazio in perenne movimento che fissando la dimora di ciò che è proprio rimanda a ciò che propriamente non gli appartiene perché non visibile all’osservatore, ma intenzionalmente nascosto dall’autore.

Ed infatti l’ambiguità del quadro dimostrata anche dai cambiamenti del nome[2] che si sono susseguiti nel tempo e che fanno pensare all’improprietà del nome ovvero a quanto viene afferrato parlando del «nome senza la cosa»[3], presta il fianco ad elaborazioni complementari, più che alternative, a quella di Foucault, che è stata confermata anche da uno studio di Paolo Spinicci.

Mi riferisco alla possibilità di applicare alla lettura del dipinto alcune categorie che Derrida sviluppa in riferimento ad un’opera letteraria di Maurice Blanchot, L’istant de ma mort, e che ci permettono di interpellare il dipinto contestualizzandolo. Solo contestualizzando il dipinto di Velázquez, un’operazione che non ha impegnato Foucault il quale si è invece fermato alla dinamica offerta dalla prospettiva geometrica, possiamo aprire l’orizzonte rappresentativo colto in modo formale, non fenomenico, da Foucault stesso.

 

Qual è, dunque, il contesto non immediatamente percepibile che possiamo ricostruire affidandoci ad altre fonti[4]?

La scena di corte rappresentata è un’istantanea fermata sulla tela dopo che i protagonisti hanno contrattato, valutato e deciso di commissionare il ritratto della famiglia reale. Ma la decisione reale non ha tenuto conto dei capricci dell’Infanta Margherita che decide di non posare.

Il quadro, che in base agli usi del tempo avrebbe dovuto rispondere ai canoni del ritratto, non è mai stato realizzato, ma seppure mai realizzato compare in Las Meninas a rovescio con il pittore a fronte in quell’atteggiamento “piéter” descritto nel saggio introduttivo a Dimora. Maurice Blanchot.

In questo contesto viene alla luce il paradosso della testimonianza autobiografica della finzione riferita al fatto che dal punto di vista dell’osservatore il pittore dipinge, testimoniando, una finzione (la realizzazione del dipinto commissionato).

Paradosso, secondo me, taciuto e nello stesso tempo indicato dalle molte interpretazioni o tentativi di interpretazioni su Las Meninas.

Lo scarto tra finzione e testimonianza non è più sulla tela incompatibile, ma sarebbe annullato in un istante unico in cui, contrariamente a quanto avviene con la parola, il segreto fissa se stesso in un istante senza tempo. Nell’infinità di un istante senza tempo proiettato sulla tela il testimone-autore non si annulla nella parola, ma in un segno senza voce fissa la condanna della propria eternità.

Diversamente sarebbe stato se per esempio nello specchio fosse stata riflessa l’immagine del pittore nell’atto di dipingere Las Meninas.

Il paradosso svelato grazie alla contestualizzazione storica svela un primo segreto, quello di una bugia nascosta dall’atto mai completato di dipingere la tela, ma è possibile cogliere altri due piani in cui il segreto fa capolino.

Las Meninas rappresenta l’Infanta in posa, mentre sappiamo che non lo era e forse le due damigelle, Maria Augustina de Sarmiento e Isabel de Velasco, stanno tentando proprio di convincerla.

Questo secondo livello di segreto, paradossalmente, offre un’apertura allo svelamento del primo. Infatti, l’Infanta diventa testimone inconsapevole, posta lì al centro del quadro dalla mano consapevole del pittore che il ritratto commissionato non può essere dipinto.

L’Infanta sosta in una posizione stabile di dimora in quanto nella realtà sfugge all’intenzionalità dei suoi genitori.

Perché, ci chiediamo, ancora, questa traslazione delle posizioni? Cos’altro può significare la centralità dell’Infanta nel quadro?

Forse la rottura di una convenzione, evidente già nello stile (terzo segreto) per il distacco di Velázquez dalla tradizione aulica della ritrattistica precedente. E’ ancora un riferimento storico ad aprire l’orizzonte interpretativo. Dall’approssimarsi di un nuovo stile trapela se non una forma di critica almeno la decadenza del regime monarchico (data ad esempio dalla presenza di figure grottesche).

L’approfondimento del concetto derridiano di différance potrebbe giustificare e ampliare quest’ultima ipotesi. La differenza di stili segna, infatti, una differenza ontologica comprensibile in quanto rinvia al circolo ermeneutico.

Sarebbe dovuta essere in posa con i genitori, i regnanti Filippo IV di Spagna e Marianna d’Austria, invece, rompendo lo schema performativo, l’Infanta è loro di fronte e volendo evitare di essere modello, diventa quale testimone il centro del quadro.

La norma viene quindi disobbedita portando in primo piano un atto di diniego (quello dell’Infanta), mentre ciò che viene ridotto a marginale è proprio la coppia reale, appena colta dal riflesso dello specchio sulla parete di fondo. E così l’Infanta nell’immagine dipinta diventa testimone involontaria (tanto più preziosa perché incapace di violare il segreto), il terzo, di un atto volontario espresso dalle due posizioni assunte dall’autore (pittore e modello) tenuto segreto nell’ambiente di corte, svelato ai posteri dalle conquiste dell’ermeneutica.

 

La situazione di finzione che si va delineando nel quadro è raccontata quindi su diversi livelli nella variatio di stile, autenticata dalla testimonianza involontaria, ma soprattutto dal fatto che l’autore si pone nelle due prospettive diverse di pittore e di modello.

Se volessimo raffigurare visivamente i diversi livelli di testimonianza e di segreto, potremmo far riferimento alle scatole cinesi. La prima conterrebbe la testimonianza autobiografica della finzione (il mancato ritratto). La seconda, la testimonianza dell’Infanta che nasconde il segreto del suo capriccio. La terza, la testimonianza inconsapevole, autenticata dalla doppia testimonianza dell’autore (pittore e modello nello stesso tempo) del segreto del dissenso.

Il tutto non è determinato quindi dalla somma delle parti, ma procede in profondità allargando la visione ontologica anche oltre lo spazio figurativo restituito dallo specchio[5].

 

Le categorie di Derrida permettono quindi di uscire dallo spazio figurativo per dilatare il dentro fino alla dimensione esterna, il mondo virtuale della rappresentazione a quello reale, in un continuum narrativo.

Proprio perché l’attenzione di Spinicci come di Foucault è diretta a cogliere l’ampliamento ontologico dell’immagine rappresentata, rimanendo all’interno dell’immagine stessa, dal loro punto di vista non possono essere colti gli sviluppi conoscitivi che la lettura delle categorie di Derrida offre. Lo stesso concetto di funzione transitiva che Spinicci riferisce allo specchio, atta a cogliere allargandola la dimensione figurativa all’aspetto immateriale svelato dallo specchio[6], non è sufficiente per rimuovere dalla loro fissità i contorni fisici del dipinto in modo da sfumarli nella direzione del contesto. Testimonianza e finzione fissano così la misura della comprensione archeologica, l’approfondimento del linguaggio celato nell’immagine, portando a compimento quella crescita nell’essere che Gadamer intravede nell’opera d’arte[7].

 


[1] http://www.lettere.unimi.it/~sf/leparole/meninas.htm

[2] Las Meninas (1656) è solo l’ultimo dei nomi dati al dipinto. Agli inizi del XIX secolo giunse al Museo del Prado (Museo reale di Pittura e scultura) con il nome portoghese di Las Meninas (Le damigelle d’onore o the Maid on Honour on the Royal children) dato solo nel 1834 per necessità di essere inserito nel catalogo realizzato da Pedro de Madrazo. Sappiamo che dal 1666 venne chiamato “La Señora Emperatriz con sus damas y una enana”, e dal 1734 “La familia del Señor Rey Phelipe Quarto”.

[3] F. Garritano, L’indecidibile e la sua legge, in J. Derrida, Dimora. Maurice Blanchot, p. 33, Palomar, Ed. Bari, 2001

[4] Lo storico dell’arte Kenneth Clark in Looking at Pictures. New York, Holt Rinehart and Winston, 1960 (Internet: http://www.artchive.com/meninas.htm) afferma: «The infant Dona margarita doesn’t want to pose… Her ladies-in-waiting… are doing their best to cajole her, and have brought her dwarfs, Maribardola and Nicolasito, to amuse her. But in fact they alarm her almost as much they alarm us, and it will be some time before the setting can take place. So far as we know, the huge official portrait was never painted».

[5] Spinicci P., La filosofia delle immagini: Las Meninas di Velázquez e il concetto di raffigurazione, da Internet, http://www.lettere.unimi.it/Spazio_Filosofico/leparole/meninas.htm, 1999: «Lo specchio ci mostra l’immagine dell’immagine, e ciò a quanto dire che lo “sguardo” della riflessione non abbandona affatto lo spazio figurativo del quadro».

[6] Secondo Spinicci, la funzione transitiva permetterebbe al quadro di instaurare «un rapporto con lo spettatore, completando così il suo senso in un dialogo che lo lega con la soggettività reale di chi guarda».

[7] Gadamer, Verità e metodo, trad. it., Milano, Bompiani, 1983, p. 167

Garritano F., Aporie comunitarie, cap II, pp. 64-67, Jaca Book spa, Milano, 1999


Testo rivisto e pubblicato in Las Meninas, ovvero "testimonianza autobiografica di una finzione" in A. Mincigrucci - I. Pozzoni ( a cura di), Parole, immagini e situazioni (Vol. III), Limina Mentis Ed., Villasanta (MB) 2015