Il branco in classe, genesi di un'esperienza

Bongo e Bingo vanno in giro a braccetto, passano le giornate a discutere il da farsi, a definire ciò che è importante scartando l’ovvio. E ovvio in questo caso riguarda ciò che viene loro imposto in modo eteronomo mentre cercano gratificazioni e l’emozione che non può incontrarsi in ambienti controllati come quelli scolastici. A scuola vanno, a braccetto, consolandosi a vicenda, provetti attori di quella fiaba mai tramontata a ripetere le parti di Pinocchio e Lucignolo; si ritrovano compagni di banco e continuano così le loro scorribande fantasiose alla ricerca di pratiche che restituiscano loro un che di significato.

La formazione del proprio sé passa da una comunicazione di senso con il proprio ambiente, si cercano definizioni e valori in cui nascono anche miti. Ma i due baldi giovani, dallo sguardo di chi è sempre pronto a trovare una scusa e ad offrire ad una domanda un’alzatina di spalla, vagano nel vuoto del disinteresse e dell’indifferenza, non riescono a percepire le emozioni altrui perché distaccati anche dalle proprie. La loro giornata trascorre così, girovagando tra un bar e la strada, portatori di una visione del mondo che delegittima modelli di socializzazione democratica. Non sanno ancora riconoscersi in questi modelli, non vedono comparire orecchie lunghe e code da asini. Scorgono solo l’immediatezza dei propri gesti.

 

Bongo e Bingo a scuola costruiscono la propria posizione all’interno del gruppo classe attraverso azioni che inizialmente sembrano solo di disturbo, ma che sono funzionali ad un riconoscimento della propria posizione. Quando ad un certo punto uno di loro inizia a fischiare, in classe la lezione cambia destinazione e come ad un concerto il maestro indica quale strumento deve essere suonato. E le attività di disturbo sono tante. Le sedie non cadono per un caso. I banchi non si muovono perché devono essere risistemati. I movimenti avvengono tutti sotto un registro e quando il processo di legittimazione dei vari disturbi viene consolidato si rafforza con l’iniziativa di un qualunque studente del gruppo classe. L’obiettivo è quello di confondere gli insegnanti nella individuazione del “capo” e nell’allargare la responsabilità a tutti i componenti della classe. Perchè se i colpevoli sono tutti insieme - pensano - non esiste e non può essere individuata nessuna responsabilità individuale. Nel gruppo si compie questo “miracolo” di riconoscimento che non fa altro che rinforzare, tra sguardi e risatine complici, azioni e prassi di opposizione al dialogo educativo.

 

Se l’insegnante discute con il gruppo in modo informale, Bongo richiama su di sé tutta l’attenzione possibile deviando l’argomento da trattare verso frasi prive di una consequenzialità. Si rompe ogni possibilità di sistematizzare e rendere ordinato e motivato il dialogo. Le argomentazioni si dissolvono nei toni elevati, in forme di vocalizzazioni senza senso. Finchè un giorno il gruppo si trasforma in branco. A cinque minuti dal suono della campanella che segna la fine delle lezioni giornaliere, i ragazzi indossano il giubbino e preparano gli zaini. Ogni tentativo di raccontare le proprie esperienze viene negato dall’arroganza di Bongo che attira su di sé l'attenzione, sentendosi finalmente una persona importante perché debilita ogni tentativo di comunicazione dell’insegnante. Uno degli studenti, rimasto fino ad allora ai margini della gestualità preminente, decide di far comprendere la propria appartenenza al gruppo e di farsi bello davanti al “capo”. Indirizza così tutti a dare manate su un compagno che cerca di difendersi al meglio e, mentre l’insegnante cerca di bloccare questo episodio, un altro s’intromette con particolare sollecitudine richiamando i compagni a picchiare un altro compagno. E guarda caso, la scelta su chi colpire ricade su quei ragazzi che non accolgono volentieri le iniziative del gruppo, ma le vivono in disparte. Scoppia il parapiglia generale  e quando finalmente l’insegnante riesce a calmare la situazione con l’ausilio di due sonore note disciplinari, Bongo decide che è arrivato il momento di far valere tutta la sua potenza. Approfittando del fatto che l’insegnante sta spiegando i motivi delle note, indica con lo sguardo l'interruttore della luce ad un compagno che capisce al volo il teatrino da mettere in scena e si appresta ad abbassare tutte le tapparelle dell’aula avvicinandosi lentamente al gruppo posizionato vicino alla porta e all’interruttore della luce. Ormai sono tutti pronti all'azione, manca il via.

L’insegnante percepisce che sta diramando un ordine che l’avrebbe indotta allo spaesamento e s’appresta ad alzare una tapparella impedendo che il buio cali su quell’aula insieme ad azioni che sarebbero potute sfociare non solo nel fracasso di banchi e sedie buttati all’aria, ma in qualche azione maldestra a danno della salute. La prevenzione di gesti per la tutela della sicurezza non cancellano però il senso distruttivo di un gesto e di un’immaginazione antisociale.

 

Rimane il dispiacere di una comunicazione fallita, il sentirsi compresa come controparte, nemica di un’affermazione del sé visto da questi ragazzi in modo positivo. Senza darsi per vinti, gli insegnanti cercano di offrire esperienze di studio che aprano a diversi punti di vista, verso la soddisfazione di bisogni di partecipazione, indipendenza, sicurezza, autonomia, significatività che caratterizzano il periodo dell’adolescenza. Non perdono di vista il loro ruolo di educatori e formatori dell’uomo e del cittadino.

Il giorno successivo l’insegnante chiede agli studenti stessi di descrivere i fatti, ma soprattutto Bongo e Bingo si oppongono. Minimizzano. Non è successo niente, ribadiscono. Le tapparelle erano state abbassate con spirito umanitario per aiutare il personale addetto ai servizi, mentre proprio Bongo, uscendo, aveva fatto saltare per aria fin nel corridoio il cestino con tutta la spazzatura. Gli altri studenti prendono le distanze da una loro complicità nel chiudere le luci facendo intravedere nel discorso che qualcuno comunque l’avrebbe dovuto fare. Ma il silenzio cade e come in tutte le famiglie che condividono i linguaggi omertosi la verità rimane nascosta, velata da un gesto di prevenzione e autotutela che richiamerà, probabilmente, sull’insegnante il desiderio di rivalsa.

 

Francesca Rennis