Rete universitaria per il Giorno della memoria

Intervista a Paolo Coen

In occasione della Giornata della memoria 2017 ho avuto modo di approfondire il quadro metodologico entro cui si muove ormai dal 2011 la Rete universitaria per il Giorno della memoria con il professore Paolo Coen, allora ricercatore presso l’UniCal, e ora docente di Storia dell’arte moderna presso l’ateneo di Teramo, tra i promotori dell’iniziativa. Tra l’altro, Coen ha creato un sito internet per la divulgazione delle proposte della Rete, da dove è possibile reperire anche materiali originali, frutto della sua personale ricerca[1].

 

L'intervista.

Oltre ai presupposti scientifici a fondamento della Rete, ci sono altri motivi?

 

La Rete è stata sentita sin da subito come un’esigenza prioritaria per uscire dall’isolamento in cui si sono ritrovate figure professionali che hanno operato nell’ambito della ricerca e della divulgazione della memoria della Shoah.

 

Le discriminazioni di oggi in che modo possono essere ricondotte alle esperienze storiche della Shoah?

È fondamentale tracciare a livello didattico un ponte tra quello che è successo prima del ’45 e quello che accade oggi. Farlo è essenziale perché se le cose rimangono ancorate nel passato, è difficile che i ragazzi riescano a capire quanto l’insegnamento di ieri sia utile all’oggi. Tuttavia bisogna evitare che ci sia un collegamento diretto, immediato. La mediazione è data dalla conoscenza della storia. Quindi la Shoah è, e rimane, un evento utile nella storia dell’uomo e, come tale, può insegnarci tantissime cose ed essere generatrice di insegnamento. Per fare cosa? Per imparare che ogni singolo fenomeno deve essere studiato singolarmente, perché a sua volta ha una sua unicità. L’arrivo di decine di migliaia di migranti oggi, la difficoltà del loro ambientamento/assimilazione del loro vivere in Italia, hanno matrici, culture, obiettivi diversi. Ci sono alcuni fattori analoghi, simili, e altri diversi. Quindi, si ripropone la discriminazione del passato, ma stando attenti a non fare banalizzazioni.

 

“Per non dimenticare…” è un’espressione  relativa alla memoria della Shoah che si ripete frequentemente insieme a “Mai più” che sembrano sempre più segnate da una retorica cristallizzata sulla commemorazione, che pensa a riguardo?

La retorica, per me, è il peggior nemico perché distrugge tutto. La odiavamo noi e non si capisce perché ora che abbiamo preso il posto dei nostri maestri dovrebbero amarla di più i giovani d’oggi. È assolutamente da evitare. È chiaro che nelle manifestazioni ufficiali che coinvolgono il mondo istituzionale e politico, la retorica è sempre dietro l’angolo perché in fondo è anche il linguaggio del potere costituito. Il linguaggio istituzionale porta con sé un aplomb.  Da intellettuale, oltre che da docente, penso di mantenere il minimo delle formalità, cercando di essere diretto, nel rispetto del luogo e delle persone con cui si comunica per adottare un linguaggio che parli ai cuori, oltre che alle teste delle persone.

 

Quanto è importante recepire i contenuti di una cittadinanza attiva attraverso l’empatia, l’emotività e come può l’arte favorirne l’apprendimento?

Bisogna tenere distinti i piani perché quando hai chiari i contenuti li puoi modulare attraverso diversi tipi di linguaggio, che possono adattarsi al posto e alle persone con cui interloquisci, sia come pubblico che come relatori. Quanto poi questo discorso scivoli, vada in altri linguaggi e, in particolare, in quello dell’arte, che come sai mi è molto caro, il discorso cambia. Quando parliamo di arte in relazione alla Shoah ci scontriamo in primo luogo con il problema che molte persone hanno con l’arte contemporanea, la refrattarietà, una serie di pregiudizi, difficoltà nell’accettare il modo dell’arte come tale. L’arte è tale quando crea una frattura di sensibilità nelle persone; frattura anche dolorosa ma non necessariamente scandalosa, ma deve provocare una frattura rispetto a quello che pensavi prima. In questo deve essere aiutata e guidata. L’arte della Shoah è arte contemporanea quando si applica a questo particolare tema.

Quello dell’emotività è un problema aperto che incrocia anche la letteratura, perché bisogna evitare di cadere in forme di pietismo o di banalizzazione richiamate da una certa rappresentazione conosciuta come “pop Shoah”.

 

Per quanto riguarda i contenuti, un posto importante nello studio della Shoah lo detiene la persecuzione fascista in Italia dopo l’8 settembre 1943, oltre che il 27 gennaio. Quale altro evento è particolarmente curato dalla Rete?

Se c’è qualcosa che ho cercato di privilegiare, è una visione storica vicina a quella di Primo Levi che non faceva iniziare la Shoah al 1933 con l’ascesa di Hitler e le leggi di Norimberga e poi alle leggi razziste del 1938. Per Primo Levi, infatti, il momento della Shoah inizia con l’ascesa al potere di Mussolini in Italia, con l’incendio delle Camere del Lavoro, l’omicidio Matteotti, i primi roghi dei libri (e in questo senso poneva il fascismo italiano come naturale predecessore al razzismo di Hitler). Noi abbiamo privilegiato non solo il 27 gennaio ma anche il 16 ottobre che nel 1999 venne proposta, come ricorda Furio Colombo,  come data per la Giornata della Memoria producendo un dibattito molto accesso sulla questione della data da stabilire per la commemorazione nazionale. Credo molto nel potere delle date quando sono scelte bene e pensi che sia importante organizzare le cose non a caso, ma intorno alle date importanti che ci sono state date come ricorrenza.

 

Quali sono i riferimenti metodologici sulla quale si è costituita la Rete?

Le “buone pratiche” sono un postulato della Rete. Tra l’altro, come abbiamo detto, le date, tra cui il 25 aprile che è stato soggetto, tutt’ora lo è, ad una serie di mistificazioni esistenzialiste o fascistoidi contro resistenzialiste. Per me è una data importante se viene smilitarizzata da armamentari ideologici. Buona pratica significa dare il massimo delle energie intorno a queste date, commemorarle nel modo giusto ma anche capire che non può essere every day Shoah. Riccardo Segni ha ragione. Ci sono persone, ed è un aspetto anche di ordine psicologico, che entrano in una specie di in trip pensano e parlano solo di questo, mentre la storia degli ebrei porta, seppure non in modo direttamente causale, alla storia di una nazione che è diventata tale, contro il pregiudizio che Israele sia stata invece la conseguenza di un’azione risarcitoria. Questa è solo una campagna diffamatoria, perché lo Stato di Israele è il frutto di un movimento nazionalista nato dal lavoro di un giornalista che di fronte all’antisemitismo aveva un sogno verso cui  tendere costruendo una nazione. Quello del risarcimento è una vulgata.

 



[1] http://paolocoen.blogspot.it/