Ferramonti di Tarsia, l'ossimoro dell'umanità in un lager fascista

“Treno 616 iersera con due vetture speciali partiti diretti Ferramonti di Tarsia centosei ebrei scortati da militari Arma. Riservomi trasmettere elenco definitivo, avvertendo che sono da considerarsi tutti indigenti”. Un telegramma, asciutto e formale, con il quale il governatore della Lubiana il 29 luglio del 1941 avvisava della deportazione di famiglie ebree di provenienza austriaca, polacca, tedesca, cecoslovacca, verso il campo di concentramento calabrese. Con loro anche donne sole. Un viaggio in treno durato due giorni fino alla stazione ferroviaria di  Mongrassano, in cui possiamo immaginare i pensieri, le emozioni, il disorientamento dei bambini, l’inadeguatezza dei loro genitori a far fronte ai normali bisogni. Rimanevano l’abbraccio e gli sguardi, il pianto soffocato, la terribile sensazione di andare incontro all’ignoto.

Quello che rimane del campo è stato cancellato da un maquillage di interventi di recupero, dalla costruzione di un’autostrada, dalla noncuranza delle istituzioni, ma il museo curato dalla Fondazione di Tarsia conserva immagini e documenti che ci restituiscono come referti una parte della vita degli internati.

La storia sul campo ha una sua discontinuità, dal momento della liberazione è come se fosse stato messa in atto una dinamica di rimozione collettiva tanto che anche i lavori autostradali si sono sovrapposti su quei terreni cancellandone le orme. Il museo della memoria ha conservato la struttura di tre delle 92 baracche originarie, quelle adibite alla direzione e agli uffici dell’amministrazione del campo che poi, dopo la chiusura avvenuta l’11 dicembre del 1945, sono state affidate ai coniugi Petroni, dipendenti della ditta costruttrice Parrini che vi rimasero fino alla morte.

Il bianco e nero delle foto di quegli anni si è confuso con il ricordo tanto che talvolta prevale una retorica della felicità. Il campo è stato descritto come atipico, dal Jerusalem Post “un paradiso inaspettato”, dallo storico Jonathan Steinberg dell’universita di Cambridge “il più grande kibbutz del continente europeo”. Si sono esaltate le voci dei bambini come bambini felici, senza riflettere sulle opportunità legate a gesti di gentilezza. Ferramonti era un luogo creato per rendere presente la forza del regime fascista e della sua alleanza con la Germania nazista. Era parte di quel progetto del Ministero dell’Interno, messo in atto già tre mesi prima della dichiarazione di guerra in linea con le "leggi razziali", che prevedeva la costruzione di campi di concentramento e luoghi di internamento per ebrei stranieri ed italiani, rastrellati brutalmente dalle loro abitazioni, cui si aggiunse, contestualmente allo scoppio della guerra, la reclusione dei cosiddetti “sudditi nemici”. Il regolamento, teso a mantenere i rigori delle leggi di pubblica sicurezza, era ferreo. Tra appelli ripetuti durante la giornata, l’obbligo del saluto romano alla bandiera, di non leggere né scrivere o ricevere lettere se non attraverso la direzione, non giocare a carte. La loro trasgressione veniva repressa violentemente e finanche con la reclusione.

 

La stessa sistemazione delle baracche, tutte bianche l’una accanto all’altra, ricalcava la pianta di un altro lager passato alla storia per le sue brutalità. Quello di Dakau. E il 25 luglio del ’43 gli internati, sarebbero dovuti essere trasferiti, su ordine del regime fascista alle autorità del campo, nella Provincia di Bolzano, se non fosse stato per la sfiducia, da lì a poche ore, allo stesso Mussolini da parte del Gran Consiglio.

Sono forse gli esiti della liberazione del campo ad opera delle truppe inglesi, avvenuta il 14 settembre del ’43, che hanno fatto prevalere nella sua storia gli aspetti umanitari, gentili di alcune persone. Un ossimoro in un lager di regime. Il direttore del campo Paolo Salvatore e il maresciallo Marrari, comandante delle guardie, riuscirono infatti a relazionarsi con gli internati in modo da rendere quella permanenza meno opprimente.

Dall’autunno del 1941 vennero internati dalla Jugoslavia occupata prigionieri ariani, uomini politici dissidenti e antifascisti, poi vi giunsero alcuni marinai e venditori ambulanti cinesi, fuggitivi dell’Europa dell’est e apolidi dalla Germania e dalla Polonia che, per sfuggire ad Hitler, s’erano  imbarcati a Bratislava il 16 maggio 1940 sul piroscafo “Pentcho”verso la Palestina, finendo naufraghi nel Mar Egeo. Una vicenda sulla quale è ritornato proprio in questi giorni (il 12 gennaio scorso) l’Osservatore romano per sottolineare l’intervento di Pio XII a favore degli ebrei e contro il regime. Circa cinquecento persone trascorsero undici durissimi giorni in un’isoletta disabitata e poi furono soccorsi da una nave italiana che li deportò nel campo di concentramento di Rodi. “Se non fosse stato per l’intervento di Pio XII la loro sorte sarebbe stata segnata”, scrive il giornale vaticano ricordando che “nell’inverno tra il 1941 e il 1942 infatti, una nave della Croce Rossa raccolse i rifugiati affamati dal campo di concentramento di Rodi e li fece trasferire in terra italiana al campo Ferramonti di Tarsia presso Cosenza”.

Le baracche erano ormai sovraffollate raggiungendo le duemila unità. Una comunità che si presentava come un crogiolo di etnie e lingue e religioni diverse. Mediazione con il mondo esterno erano le guardie e gli ufficiali, associazioni umanitarie come la Croce Rossa e l’Unione delle Comunità ebraiche (Delasem), personalità come padre Callisto Lopinot e il rabbino Capo di Genova, Riccardo Pacifici, che vi celebrarono matrimoni e riti. Le sensibilità mostrate dai responsabili del campo furono di grande aiuto perché si potesse mantenere, attraverso le attività culturali e sportive e la scuola per bambini, il senso della vita. E con i bambini bisognava sdrammatizzare, rendere la permanenza leggera, l’ospitalità più credibile. La stessa Delasem ne riconobbe l’umanità e la comprensione.

La presenza nel campo di medici internati avvicinò la comunità locale di Tarsia e dei paesi limitrofi al campo, ma le necessità erano davvero tante. Il clima umido e infestato dalle zanzare favoriva malaria e tifo, le derrate alimentari scarseggiavano e dal luglio ’43 alla fine della guerra la situazione si fece particolarmente grave tanto che il medico del campo, per mantenere l’esaltazione mentale delle persone più fragili a causa della fame, dotò l’infermeria di alcune camicie di forza.

Una storia, quella di Ferramonti, nella quale si sono incrociate vicende politiche e umane, racconti di vita e testimonianze nel dolore e nella sofferenza che stanno vedendo la luce grazie all’opera della Fondazione “Museo della Memoria Ferramonti di Tarsia”, alla quale si è accostata in  modo significativo l’UniCal con seminari a più voci e l’Ufficio scolastico regionale della Calabria, soprattutto per promuovere una didattica della Shoah con le scuole. La conoscenza di quanto è avvenuto è necessaria, ci ricorda Primo Levi, anche se la comprensione dello sterminio etnico e religioso rimane ineffabile. La memoria è un valore ineccepibile nella costruzione della convivenza e deve essere coltivata attraverso le generazioni perché non si ripeta più l’orrore di un inutile martirio, la riduzione dell’uomo ad oggetto e si tuteli e curi, invece, la persona umana e la sua esistenza come beni preziosi.

 

Attraverso la memoria ci giungono anche testimonianze di scelte possibili contro i comandi della dittatura. Esempi di straordinaria umanità che portano con sé l’aurora della speranza.

Francesca Rennis

Bibliografia

Francesco Folino, Ferramonti? Un misfatto senza sconti, Edizioni Brenner, Cosenza 2004

Francesco Folino, Ferramonti. Il campo, gli Ebrei e gli antifascisti, Ed. La Scossa, Roggiano Gravina 2009

Osservatorio Romano, 13 gennaio 2012, «Sii sempre fiero di essere ebreo» disse Pio XII, di Raffaele Alessandrini

Storie Tg2, Il lager dei bimbi felici di Riccardo Giacoia  http://www.youtube.com/watch?v=Px3ut9To93o

 

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Articolo pubblicato il 26/01/2012 14:15 su

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