Riflessioni sulla strage di Piazza della Loggia

28 maggio 1974 - 28 maggio 2012

 

Discorso letto a colleghi e alunni del liceo classico “Arnaldo” di Brescia, nel cortile della scuola, in occasione del trentottesimo anniversario della strage di Piazza della Loggia.

 

 

Della strage di Piazza della Loggia conservo, nonostante gli anni trascorsi, un ricordo nitido e terribile, che aggalla anche ora con la forza di un’immagine antica.

  

Dirò a riguardo poche parole, inseguendo brandelli di memoria, e affaccerò qualche riflessione.

 Il 28 maggio 1978 non ero in piazza della Loggia tra i manifestanti antifascisti di quella tragica mattina, ma a Milano, all’Università degli Studi, per gli ultimi accordi con il mio relatore, prima della consegna della tesi. ( Ero, allora, un giovane laureando di Lettere classiche).

Sapevo della manifestazione sindacale bresciana, e condividevo le ragioni ideali che l’avevano ispirata.

In tempo di engagement, anch’io, che vivevo a Brescia dal 1969, ero attento a tutto ciò che accadeva attorno a me e sperimentavo, da studente migrante (venivo dalla Calabria), il valore dell’impegno civile e politico allo specchio ustorio della realtà.

 

La notizia della strage mi giunse, attraverso la radio, negli androni dell’Università, e fu subito orrore, rabbia e sgomento.

Riapparve, all’improvviso, il volto di Thànatos: quello di piazza Fontana (12 dicembre 1969), che aveva inaugurato la “strategia della tensione” e  la stagione delle bombe, secondo una «sottile linea nera» che lambiva, quel giorno, la nostra città. (A dire il vero, agiva in quegli anni inquieti anche una violenza di estrema sinistra, che avrebbe conosciuto un salto di qualità dal 1974 al 1980, con le Brigate Rosse).

Ritornai subito a Brescia con due amici ex arnaldini, pendolari come me e animati dallo stesso desiderio di capire, vedere, informarsi.

Facemmo incetta di giornali, per tutta la giornata.

 Diluviavano infatti le edizioni straordinarie dei quotidiani locali (“Il Giornale di Brescia” e “Bresciaoggi”, al suo battesimo di fuoco con l’informazione cittadina, perché di recente fondato).

Si conoscevano, in tal modo, le immagini della strage, le parole interrotte del relatore (Franco Castrezzati), la violenza dell’esplosione, il bilancio provvisorio di morti e feriti. E diveniva, di ora in ora, sempre più chiara la portata politica del massacro, anche per l’atroce conta delle vittime.

Io ero come paralizzato e non riuscivo a recarmi in piazza, nel cuore ferito della polis, dove quel giorno si era sparso il sangue. La sera però ruppi ogni indugio e visitai quello spazio segnato dalla violenza e dalla morte, partendo dalla colonna sbrecciata.

Ricordo ancora il selciato umido d'acqua, dopo il lavaggio improvvido del primo pomeriggio, e i volti contratti, sdegnati, decisi di uomini e donne assiepati ai lati della piazza, tra lumini e mazzi di fiori. Fui colpito da un numero incredibile di foulards o di pochettes  ammassate dietro una transenna, vicino al negozio “ Tadini & Verza”, non so se gettate lì come atto di pietas per le vittime o chiazzate di sangue e per sempre perdute dai caduti. So invece che me ne ritrassi spaventato, con la stessa sensazione di profanazione che provavo a contatto con i fiori pestati presso la colonna segnata dallo scoppio.

Osservando gli uomini e le donne che presidiavano la piazza, mi pareva di cogliere nei loro sguardi di pietra, nel silenzio irreale di quell'ora serotina, nella tensione composta che vaporava sugli astanti, una richiesta di verità, di giustizia, di securitas che non poteva essere disattesa, e che avrebbe trovato - io pensavo - certamente accoglienza presso gli inquirenti e i tribunali.

L'iter giudiziario della strage, fino alla recentissima sentenza di assoluzione di tutti gli imputati, ha conosciuto invece un ben diverso epilogo. Quella richiesta di giustizia, peraltro rinnovata ad ogni anniversario e ad ogni sentenza, è rimasta inevasa, nonostante diversi processi e gradi di giudizio; e la strage del 28 maggio è, a tutt'oggi, impunita, senza colpevoli.

 

Procedo con considerazioni brevi, a mo' di appunti schizzati in fretta, per giungere rapidamente alla fine.


1. In una democrazia compiuta, la discrasia tra bisogno di giustizia e capacità di garantirla, (discrasia che discende dalla difficoltà / impossibilità di individuare e condannare esecutori e mandanti di eccidi atroci, come è accaduto per la strage di piazza Fontana e per quella di piazza della Loggia), lede il diritto all'uguaglianza e alla libertà, di cui ogni cittadino è depositario, e contravviene al dettato costituzionale. Alimenta inoltre insicurezza, frustrazione, sfiducia nelle istituzioni, e può giungere a minare, in tempi calamitosi, la stessa coesione sociale.


2.Cinque delle otto vittime erano insegnanti, giovani insegnanti (il più vecchio, Alberto Trebeschi, aveva 37 anni; il più giovane, Luigi Pinto, 25 ; Giulietta Banzi, ne aveva 34; Livia Bottardi, 32; Clementina Trebeschi, 31). A me, che a quei tempi studiavo per diventare docente, la loro morte appariva una sopraffazione intollerabile e barbarica, l'esito estremo di un atto vile e arrogante, il frutto di un odio definitivo e senza riscatto, che cancellava brutalmente idee ed esistenze.


3. Quei docenti erano tutti impegnati sul piano sindacale e politico, in coerenza con le loro scelte ideali   e didattiche. La loro presenza in piazza, insieme a migliaia di altri cittadini liberi e consapevoli (docenti, studenti, operai, pensionati), voleva riaffermare i valori della libertà e della convivenza civile, contro la paura, l'intolleranza e la violenza dell'eversione nera.

(L'ultimo atto terroristico si era avuto, in città, nella notte tra il 18 e il 19 maggio con lo scoppio di una bomba in Piazza del Mercato e la morte del neofascista Silvio Ferrari, che la trasportava col suo scooter).

 

4. La libertà, la democrazia, l'uguaglianza non sono soltanto principi astratti, diritti irrinunciabili, sanciti, com'è giusto, da solenni dispositivi costituzionali; non si predicano e non si commentano soltanto durante le ore di Storia e di Educazione civica, a scuola; ma devono inverarsi nella realtà e nell'esperienza, divenire prassi, azione, testimonianza quotidiana. E nulla, in questo campo, è acquisito una volta per sempre, come dimostra l'ultimo attentato di Brindisi, in cui è perita la studentessa Melissa Bassi, e come testimonia il rigurgito di nuove minacce terroristiche.

 

5. Questo (il dovere della testimonianza) è il senso che le vittime della strage (oltre a quelle che ho citato, Euplo Natali, pensionato, 69 anni; Bartolomeo Talenti, operaio, 56 anni; Vittorio Zambarda, operaio edile, collocato a riposo il 26 maggio, 60 anni) davano alla loro presenza in piazza, il 28 maggio; e questa è anche la ragione, l'unica ragione forse, per cui la loro vita è stata stroncata sotto quella colonna sbrecciata da chi è rimasto nell'ombra. Questo è anche il valore della memoria di quei fatti lontani, il significato non rituale che questa giornata ci pone di fronte, qui ed ora, e per gli anni a venire, perché l'oblio non si stenda su quelle esistenze incappucciate di tenebre, che riescono ancora a interrogarci e a sollecitare le nostre coscienze.

E bene avete fatto voi, studenti dell'Arnaldo, ad aderire al “Percorso della memoria” e a incidere il nome di Giulietta Banzi Bazoli, docente, all'epoca, di lingua e letteratura francese nel nostro liceo, sulla formella di pietra che avete acquistato.

Vorrei concludere con una breve citazione di Alberto Trebeschi, tratta dal suo diario personale e datata 23 ottobre 1962. Allora Alberto lavorava alla Philips, in un'azienda privata, e aspirava con forza all'insegnamento[1], insoddisfatto di quell'occupazione che avrebbe poi abbandonato.


Che cosa voglio?

Vorrei insegnare in un liceo. Mi accontenterei dello stipendio attuale dei professori di prima nomina, se avessi la certezza di insegnare in un liceo, o in una scuola media superiore. Mi dedicherei con vera passione all'insegnamento ed impiegherei il tempo libero per leggere, studiare, frequentare uomini colti, cercare di conoscere tutti gli aspetti della vita. In altre parole avrei la possibilità di spaziare libero là dove sento maggiore interesse e non sarei mai costretto a soffocare, insegnando, problemi di nessuna attrattiva per me. Non nego la necessità di un certo tipo di lavoro, ma capisco che questo [il lavoro alla Philips] non può essere il “mio” lavoro. Non voglio essere passivo e parassita; e perciò amerei con passione l’insegnamento, ma nello stesso tempo potrei studiare e approfondire i problemi che tanto mi affascinano. Per non parlare della politica, della quale potrei avere un interessamento più vivo e produttivo.[2]

 

In tali parole io (che sto per congedarmi dall’insegnamento, e da questo liceo, perché la pensione incombe), ritrovo intatti il senso e l’ethos  della mia avventura professionale.


Brescia, 28 maggio 2012

 

                                            




[1]Insegnamento che sarebbe  stato, dopo il licenziamento dalla Phlips, quello di Fisica presso l’Istituto tecnico industriale “Castelli” di Brescia.

[2] Alberto Trebeschi, Scritti 1962-1974, diario, lettere, interventi, Luigi Micheletti editore, Brescia, 1984, p. 81.