Luoghi, e senso dei luoghi nella narrativa di Giorgio Bassani

di Giuseppe Magurno

Giorgio Bassani (1916-2000)
Giorgio Bassani (1916-2000)

Il tema dei luoghi è sicuramente centrale nella narrativa di Giorgio Bassani (1916-2000), «uno scrittore da ritrovare»[1] dopo le incomprensioni critiche dei primi anni Sessanta, in tempi di neoavanguardia e di sperimentalismo. Ed è centrale non soltanto in chiave identitaria e antropologica, se si pensa a Ferrara, la sua città d’origine, ma anche (e soprattutto) dal punto di vista ideativo e genetico, con tutti i risvolti storici e simbolici del caso.

Si può partire, per esemplificare, da due citazioni poetiche dello stesso Bassani, il quale amava definirsi ‘poeta’ piuttosto che narratore o romanziere (e sempre scrisse poesie, prima durante e dopo la sua esperienza di prosatore). La prima è tratta dalla lirica La porta Rosa, che appartiene  alla raccolta Epitaffio, del 1974.

 

«Quando mi rimproveri di non occuparmi nei

miei libri che di Ferrara e del territorio

immediatamente limitrofo

Reno e Po a sud e a nord non osando

io varcarli che di rado e di straforo  e l’Adriatico

ad est non facendocela in pratica

giammai a raggiungerlo

dovresti ricordarti della nostra gita

 dell’estate scorsa alle rovine di 

                                                                                                                     Velia …».

 

In questi versi Bassani delinea la mappa dei luoghi in cui si muovono e agiscono i personaggi del Romanzo di Ferrara, ‘summa’ della sua produzione narrativa, e ne perimetra, come un geometra, l’estensione complessiva, con i relativi punti cardinali: a sud il Reno, a nord il Po, fiumi di ben diversa portata d’acqua, varcati soltanto raramente e casualmente dall’autore; e poi, l’Adriatico, quasi irraggiungibile, e mai raggiunto (anche se ciò non corrisponde pienamente a verità: vedi alcuni personaggi del Romanzo di Ferrara in vacanza a Riccione e sulle spiagge romagnole, oppure a caccia come Limentani, nell’Airone, sul delta del Po, di fronte al ‘salso mare’).

E si serve, per questa rampogna indirizzata - in ultima analisi - a se stesso, di un ‘tu’ ben delineato, di sesso femminile («alta e bionda e straniera e di roseo sangue / pura»),[1] che si lamenta dell’angustia geografica e spaziale dei libri dello scrittore, sempre contrassegnati da una stessa, monotona topografia.

Pertinenti al nostro assunto, e programmatici dal punto di vista della ‘poetica’ dello scrittore, risultano anche i versi finali della medesima lirica:

«Non lasciarmi solo a scavare nella mia città a resuscitare

grado a grado alla luce

ciò che di lei sta sepolto là sotto il duro

spessore di ventimila e più giorni»

 

Da questi versi emerge l’ethos della ricerca narrativa di Bassani, lo scopo del suo continuo, inesorabile, ‘fatale’ (in qualche modo) lavoro di scavo nella memoria, la sua e quella collettiva, per più di cinquant’anni (ventimila e più giorni). Tale lavoro di scavo, doloroso come ogni rievocazione memoriale (tanto più nel caso di questo scrittore, segnato da una immedicabile ferita d’origine per la sua diversità, ebraica e culturale) ha luogo a Ferrara, città che si configura metaforicamente come un (ungarettiano) ‘porto sepolto’, dove lo scrittore si immerge per riportare alla luce, nuovo palombaro, storie, volti e luoghi su cui il tempo potrebbe, altrimenti, depositare una patina di oblio definitivo.

Ciò che egli vuole scongiurare è appunto l’oblio, l’inaccettabile dimenticanza di fatti e vicende che hanno mostrato il volto orrendo del  «male radicale»  (i lager e lo sterminio degli ebrei, anche di quelli ferraresi), cause e responsabilità comprese: il fascismo, le leggi razziali, la guerra; ma anche la connivenza e la complicità della borghesia locale con i carnefici; la sottovalutazione del pericolo che si addensava sulla testa degli ebrei (anche fascisti), all’interno della stessa comunità israelitica di Ferrara; certa diffusa indifferenza; la voglia di rimuovere in fretta, post eventum, le atrocità e gli orrori commessi [2], per voltare pagina e inaugurare un futuro diverso. 

E in un’intervista[3] rilasciata ad Anna Folli nel 1979, Bassani ribadiva con forza questa necessità di ricordare: «… il pericolo che incombe sui giovani d’oggi è che si dimentichino di ciò che è accaduto, dei luoghi donde tutti quanti siamo venuti. Uno dei compiti della mia arte (se l’arte può avere un compito), lo considero soprattutto quello di evitare un danno di questo tipo, di garantire la memoria, il ricordo. Veniamo tutti quanti da una delle esperienze più terribili che l’umanità abbia mai affrontato. Pensi ai campi di sterminio. Niente è stato attuato di più atroce e di più assoluto. Ebbene i poeti sono qua per far sì che l’oblio non succeda. Un’umanità che dimenticasse Buchenwald, Auschvitz, Mauthausen, io non posso accettarla. Scrivo perché ci se ne ricordi».

   La seconda citazione è cavata dalla poesia Dove vivi?, che appartiene alla raccolta, In gran segreto, del 1978.

Dove vivi? – mi chiede corrugando la

fronte e stringendo le palpebre – Dov’è

che diavolo stai?

 

A Roma? A Ferrara? Laggiù

a Maratea? Oppure nuovamente

altrove?

 

Nessuno pensando a te saprebbe darti oggi il più

piccolo posto un po’ tuo – conclude – proprio tu che fino

all’altro ieri soltanto

non ne hai abitato in fondo che

uno

In tale testo, articolato in tre strofe  di diversa lunghezza (rispettivamente, 3, 3, 6 vv.) sfilano alcuni dei luoghi dove lo scrittore è vissuto o ha abitato in anni diversi e per periodi di differente durata: Roma, dal 1943 al 2000; Ferrara, dal 1916 al 1943; Maratea [4], dal 1967 al 1981, in tempo d’estate.  C’è inoltre - sia pure con la ripetuta formula interrogativa - lo snobistico, continuo spostarsi del poeta, ebreo errante, che non riesce ad accasarsi in modo definitivo e cerca sempre un altrove, dopo l’unico posto percepito come veramente suo, fino ad epoca recente (l’altro ieri) e mai veramente abbandonato: Ferrara.

Notevole è, per il nostro discorso, la differenza tra ‘vivere’ e ‘abitare’: il primo verbo ha a che fare con ciò che è effimero, caduco, provvisorio, e costituisce, come la vita terrena, un’esperienza destinata a finire; il secondo si connette invece a un’idea di stabilità, di permanenza, perfino di eternità, se ci si riferisce ai morti, i quali «non vivono nei cimiteri, ma li abitano», come ricorda la studiosa Paola Frandini[5]. Ella aggiunge che, «se è possibile guardare senza vedere, è possibile vivere senza abitare»; e poi, citando Joseph Roth, in Hotel Savoy («Noi, dovunque siamo, abbiamo la patria dove sono i nostri morti»), sottolinea che la città d’origine diviene,  per Bassani, oltre che per altri suoi personaggi, culla e bara, casa  e tomba, con una letterale e simbolica sovrapposizione di ruoli. [6]

Ferrara è, quindi, un elemento di identità (anche funebre), ovvero ricerca e consapevolezza delle radici dello scrittore, il quale dichiarava nel corso dell’intervista sopracitata:[7]

«Se non sono condizionato dalle mie radici, da che cosa dovrei esserlo? Ogni artista vero, ogni poeta, non può non fare i conti con le proprie origini, con le proprie budella. La città del Castello di Kafka non è Praga, d’accordo, ma d’altronde cosa potrebbe essere mai  se non Praga?».  

 

Alla luce di tutto ciò, e in riferimento alla distinzione tra vivere e abitare, giusta l’indicazione della poesia citata, si può provvisoriamente concludere nel modo seguente: Bassani ha ‘vissuto’ a Roma, a Maratea e in altri luoghi (tra cui Napoli e New York), ma ha ‘abitato’ soltanto a Ferrara, anche quando ha dovuto allontanarsene (nel 1943) per ragioni politiche, dopo l’esperienza della prigione in via Frangipane e il suo impegno precedente, e successivo, tra gli antifascisti e  nella Resistenza.

Di Roma e Maratea si dirà brevemente in seguito, perché luoghi - entrambi - estranei alla narrativa di Bassani e affacciati, soprattutto (o esclusivamente), nella sua produzione poetica, più legata al presente,[8] anziché alla storia.

Ferrara è dunque, per tutto quello che è stato detto, il soggetto e il luogo dei romanzi e dei racconti di Bassani, a partire dal titolo (Il romanzo di Ferrara, appunto) che l’autore volle dare, nel 1980, a quanto aveva scritto, e riscritto in prosa, nel corso di un lungo arco di tempo: dal 1937, anno del primo abbozzo di Lida Mantovani, una delle prime storie ferraresi, alla realizzazione della sua opera ommia in prosa, nel 1974. Ferrara è inoltre, in virtù di questo titolo e delle vicende narrate, l’eroe eponimo del romanzo, la protagonista assoluta, che vive gli stessi casi, gli stessi accidenti, le stesse disgrazie dei suoi abitanti. Risulta perciò uno spazio animato, non un semplice contenitore urbano; e sempre accende il fiat creatore, avvia l’azione e interagisce con i personaggi, di cui rispecchia stati d’animo e psicologia. Si configura come un luogo reale, perfettamente riconoscibile per le sue caratteristiche storiche, topografiche e toponomastiche, e contemporaneamente come un luogo dell’immaginazione, con un chiaro valore simbolico. È infine il «limen», soglia o «confine, tra spazio visibile e memoria invisibile, e tra io e mondo», come sostiene Cristiano Spila nella sua post-fazione a Il romanzo di Ferrara.[9] 

Interessante è, al riguardo, quanto afferma lo stesso Bassani sulla personale modalità rappresentativa della sua città:

 

 «Come narratore, la mia ambizione suprema è stata quella di risultare attendibile, credibile, insomma di garantire al lettore che la Ferrara di cui riferisco è una città vera, certamente esistita. Intendiamoci: non è che non mi sia permesso delle libertà: il giardino dei Finzi Contini, per esempio, non è mai esistito in fondo a corso Ercole I d’Este … Sulla sinistra, poco di qua dalle Mura, esisteva però lo spazio verde di cui ho scritto, l’area che avrebbe potuto accoglierlo …. Mi sono permesso anche qualche modifica nel tessuto urbano, è vero. Alcune strade, alcune piazze, ho dovuto inventarmele. Penso tuttavia di essere stato onesto, di essermi sforzato di restituire, della Ferrara di cui ho scritto, un’immagine il più possibile reale, concreta».[10]

E ancora, nella stessa intervista:

«la Ferrara di cui mi sono occupato scrivendo è soltanto la Ferrara dell’epoca del fascismo [ma l’Airone è ambientato nel 1947!]. Per quel che ricordo io si trattava di una città intensamente devota al Regime: al punto che le poche persone che fasciste non erano, vivevano ai margini, non avevano alcun rapporto con gli altri, coi più». Quegli stessi ebrei ferraresi che poi sarebbero finiti in gran numero nelle camere a gas naziste, erano stati in gran parte fascisti …».

 

Si vedranno meglio, tra poco, alcuni particolari di tale rappresentazione di Ferrara, con riferimento al reticolo delle sue vie e ad alcuni elementi topici[11] e ricorrenti della sua configurazione urbana (le mura, i muri, la casa, l’orto, il giardino, il cimitero).

Qui basti dire che la città d’origine è, per la sua continua presenza, l’ossessione narrativa di Bassani, il «fantasma» ricorrente, che ospita altri fantasmi, tra cui le ombre dei suoi cittadini: ombre (ovvero, umbrae, eidola), di cui lo scrittore diventa testimone, e ne racconta la storia, quasi a pacificarle in modo definitivo, a impedire loro di aggirarsi lungo le vie e le piazze ferraresi. Per questo realizza il libro unico, compatto, solidamente strutturato [12], come si addice a un luogo unico, il solo che Bassani abbia veramente abitato, che è Il romanzo di Ferrara.

Il libro (o macrotesto), al di là dell’etichetta di genere, certamente impropria nella sua accezione vulgata perché accoglie testi diversi (racconti, novelle, saggi, romanzi), non è neppure ‘unico’ in senso letterale, perché comprende sei libri, indicati in successione con il rispettivo ordinale (I, Dentro le mura, II, Gli occhiali d’oro, III, Il Giardino dei Finzi Contini, IV, Dietro la porta, V, L’airone, VI, L’odore del fieno); ma è certamente un caso unico[13] di generi narrativi in contatto, la cui sintesi può essere costituita dall’unico oggetto o personaggio, che compare nel titolo (Ferrara) e rappresenta l’ostinata quête di Bassani, il suo viaggio nella memoria. In termini pittorici, un concetto equivalente può essere veicolato dalla parola ‘polittico’, il dipinto in legno, articolato in più tarsie a rappresentare individualità tematiche (o iconiche che dir si voglia), e tuttavia organico e coerente nel suo insieme.  

 

   L’autore d’altra parte, definendosi poeta e storicista [14], propendeva per il superamento della tradizionale distinzione dei generi letterari:

 

«… è ora di finirla con questa distinzione – che può essere utile, a patto di non crederci troppo -, tra narratori, poeti, teatranti, saggisti, eccetera. I poeti si esprimono sempre attraverso le cose che fanno, attraverso i versi, i romanzi, le opere teatrali. Racine è un grande poeta non perché scrive andando a capo, cioè in versi … ma perché aveva una cosa profonda da esprimere. Lo stesso si dica per Alfieri, per Goldoni, eccetera, tutti grandi poeti. Quanto a me, io non sono un romanziere, o un rimatore, o un saggista. Sono un poeta, sostanzialmente un poeta».

 

E i poeti, premetteva, devono parlare «di ciò che ricordano». [15] 

 

Alla rappresentazione di Ferrara l’autore giunge, comunque, per progressive approssimazioni. Essa compare per la prima volta in Una città di pianura, il testo giovanile pubblicato nel 1940, con la semplice iniziale F, seguita dal punto fermo o dall’asterisco (e non facilmente riconoscibile in questa forma abbreviata, reticente, un po’ manzoniana). In seguito fa la sua epifania, con caratteristiche proprie e note, in Lida Mantovani, tormentata narrazione d’esordio delle Cinque storie ferraresi (1956), poi Storie ferraresi (1960), divenuta infine - dopo vari rimaneggiamenti e riscritture - Dentro le mura (1973) e inclusa, con tale titolo, ne Il romanzo di Ferrara (1980).  E, a conclusione del ciclo narrativo, si presenta - preceduta dall’aggettivo «ferraresi» - con il nome proprio  (Ferrara) e il peso di una lunga tradizione letteraria e culturale, che va  da Ariosto  a Tasso  a De Pisis.

 

Investigare tale città è dunque necessario per coglierne gli aspetti reali e metaforici, con attenzione particolare ai suoi spazi topici, che ricorrono con regolarità in tutto il Romanzo di Ferrara, al pari dei personaggi. Ma, poiché non è possibile proporne - in questa sede - una disamina esauriente e puntuale, ci si limita a qualche accenno significativo e si rimanda, per il resto, all’ampia bibliografia specifica.[16]

 

Ferrara è innanzitutto rappresentata entro il cerchio delle sue mura, come una sorta di «Fiorenza» dantesca (ma meno pacifica, «sobria e pudica»).[17] In essa ci sono mura e muri. «La cerchia antica» garantisce protezione e, contemporaneamente, o alternativamente, costituisce una prigione, che rinserra l’individuo nel fortino del suo isolamento e della sua esclusione. Lungo «la Mura degli Angeli» accadono comunque fatti importanti per i vari personaggi di Bassani: David e Lida Mantovani, ad esempio, passeggiano lungo i bastioni; e lungo le mura si muove anche Bruno Lattes con Clelia Trotti. Nel perimetro pentagonale della cinta muraria si snoda, poi, il reticolo delle vie, dei viali, dei corsi, delle piazze: reticolo che rappresenta il ‘fuori’, l’esterno, cui si contrappone il ‘dentro’, l’interno, con i muri, le camere,  le case, le aule.

I muri includono, recludono, segregano, e mettono in evidenza la solitudine e la sofferenza (fino alla morte) di chi vive in spazi chiusi. Così avviene per il protagonista di Dietro la porta, dove i muri dell’aula e delle case (di Carlo Cattolica e dello stesso protagonista) rappresentano un confine invalicabile per lui, che rimane sempre sulla soglia. E così avviene anche per Edgardo Limentani, nell’Airone, il quale è rinserrato in varie stanze e risulta, infine, prigioniero di questi luoghi claustrofobici e della sua inettitudine. Ma sorte non diversa tocca alla stessa Micòl, nel Giardino dei Finzi Contini, dove la giovane donna appare ‘murata’ nella propria camera, da cui non esce mai se non per raggiungere il giardino, che è a sua volta recinto, hortus conclusus.

 

Non c’è dunque via d’uscita o possibilità di evasione per molti personaggi bassaniani, anche per quelli animati dal desiderio di spezzare le catene della loro reclusione. E chi vuole o tenta di uscire fuori dalla prigione, spesso rientra in essa, attratto dal proprio carcere familiare. Sicché, in definitiva, la vera liberazione è rappresentata soltanto dalla morte, dal suicidio (si uccidono, infatti, sia Athos Fadigati, negli Occhiali d’oro, sia Edgardo Limentani, nell’Airone).

Lo spazio, simultaneamente reale e simbolico, ha nel Romanzo di Ferrara un’importanza superiore al tempo, che lo scrittore struttura in forma geometrica (spaziale, appunto). Esso avvia e sviluppa la successione degli avvenimenti, e fagocita, in qualche modo, anche il tempo, assorbendolo dentro di sé. Consuona, inoltre, con lo stato d’animo dei personaggi e con la loro evoluzione psicologica. E può essere rappresentato attraverso alcune metafore, ‘autorizzate’ (in parte) dall’autore. Una di queste è la sfera; un’altra, quella dei cerchi concentrici. La prima richiama la configurazione circolare delle mura di Ferrara; la seconda, il destino immutabile di alcuni personaggi, che girano da una parte senza incontrare, in questo moto di rotazione, gli altri, che si muovono invece in direzione opposta. Fermo è il perno, ma parallele le sfere, senza possibilità di convergenza (vedi il caso di Geo Josz, l’ebreo sopravvissuto al lager di Buchenwald, ma escluso dalla comunità di partenza, che evita ogni incontro con il reietto).

 

Altre metafore hanno a che fare con immagini di angustia spaziale, di oscurità, di immersione nel pozzo della coscienza o della memoria  e di successiva emersione. Tra di esse sembrano particolarmente funzionali quelle della galleria, della tana, della caverna, del pozzo, del corridoio.

Ad esempio, via Borso d’Este è presentata, Negli ultimi anni di Clelia Trotti, come un budello rettilineo, che ha come meta il camposanto. Ha dunque connotazione funebre, al pari del cunicolo buio, dove Giorgio lascia la bicicletta, quando si reca per la seconda volta da Micòl, Nel giardino dei Finzi Contini. Quel cunicolo è simile all’ipogeo dei Matuta, nella necropoli etrusca del prologo, e permette al giovane di conoscere meglio l’erede (Micòl) dei Finzi Contini e di scoprirne l’alterità insuperabile. 

 

Nell’Airone, oltre alla botte per la caccia, alle stanze che il protagonista conosce dentro e fuori Ferrara, e alla baracca stretta e buia di Gavino, il suo aiutante venatorio, che richiamano situazioni di angoscia  e immagini di morte, c’è la presenza del pozzo, prima in accezione metaforica e poi in senso letterale. Esso è metafora delle buie viscere e segnala, con il suo movimento discendente, l’incoscienza iniziale (o il mancato scavo interiore) del protagonista ‘sonnambulo’, e la disperazione finale, che  conduce - dopo l’immersione nel pozzo dell’Io - al gesto estremo, alla soppressione di sé. 

Il corridoio è, infine, il passaggio stretto, lungo e  buio che tutti i personaggi, e lo stesso Bassani, hanno in qualche modo attraversato. Per i primi esso è metafora della vita e acquisizione di consapevolezza; per il secondo, viaggio à rebours nella memoria e ricerca della verità. Come scrive lo stesso autore, Nell’odore del fieno: «Recuperare il passato dunque è possibile. Bisogna, tuttavia, se proprio si ha voglia di recuperarlo, percorrere una specie di corridoio ad ogni istante più lungo. Laggiù, in fondo al remoto, soleggiato punto di convergenza delle nere pareti del corridoio, sta la vita, vivida e palpitante come una volta, quando primamente si produsse. Eterna, allora? Eterna. E nondimeno sempre più lontana, sempre più sfuggente, sempre più restia a lasciarsi di nuovo possedere».   

 

A conclusione, due considerazioni ‘extravaganti’ su Roma, Napoli e Maratea, luoghi non intrinseci ai testi narrativi di Bassani e suscettibili di un diverso gradimento da parte dello scrittore.

Nella prima non gli piaceva vivere, nonostante i lunghi anni (circa un sessantennio) di residenza in loco. Troppo grande, Roma, troppo caotica per un provinciale inurbato come lui: una città «straniera», con i suoi marmi in superficie e suoi ipogei sotterranei, che davano inquietudine. E i suoi saliscendi, i suoi colli, i suoi spazi pianeggianti, cosi diversi dalla configurazione morfologica di una città di pianura, come Ferrara. Nell’Urbe  perfino il sole e la luna sono «neri, e la fronte della città «non splende di grazia». [18]

 

Nella seconda (Napoli), dove Bassani rimase per pochi anni, la concentrazione era per lui impossibile. Cercò di lavorare alla storia di un partigiano, ma il progetto non ebbe seguito, nonostante i consigli di Mario Soldati, che gli raccomandava di girare poco in bicicletta e di sedere a lungo dietro una scrivania (raccomandazione che egli accettò soltanto per la narrativa di ispirazione ferrarese).  

 

Nella terza località, di cui è traccia - come si è visto - in Epitaffio e In gran segreto, egli trascorse anni inizialmente felici, dapprima in dolce compagnia e poi in solitudine, fino al nuovo mènage con Portia Anne Preby, che vivrà con lui dal 1978 alla morte dello scrittore, ben dopo l’alienazione (agli inizi degli anni Ottanta) della casa di Maratea.[19]  

Questa bella cittadina della Lucania è descritta, in alcune poesie [20] che la riguardano, come un luogo reale e incantato, con il mare, il porto, il lungo promontorio di Palinuro, a sud; la corona delle montagne, Trecchina, (un paese vicino), Lagonegro, il monte Pollino, a nord; e la non remota Velia, dove ancora aleggia lo spirito di Parmenide, ad est.

E tuttavia, benché Bassani abbia completato e sistemato in modo definitivo (nel 1980) l’edizione ne varietur della sua produzione in prosa, dedicandosi, per il resto, soltanto al presente, fuori dal «corridoio» della memoria, i ricordi della sua Ferrara continuano ad aggallare anche dai versi e non l’abbandonano mai. Significativa è, da tale punto di vista, la lirica Rolls Royce,[21] nella quale l’autore prefigura (in qualche modo) il suo funerale e immagina di ritornare, post mortem, nella sua città d’origine, con un’autovettura di lusso  e uno chauffeur inguantato, elegante. Egli ripercorre, così, luoghi e strade ben noti, [22] ridisegnando per l’ennesima volta la mappa di Ferrara, con soste e ripartenze, fino alla casa natia, in via Cisterna del Follo, e alle «strade» fuori Porta, «ampie e deserte /, prive affatto di tetti ai lati e affatto / sconosciute», meta conclusiva di questo visionario tour postumo.

Ciò dimostra che il fantasma di Ferrara è divenuto, ormai, uno ‘spettro’, che incalza il poeta come l’ombra di Banquo, e non tollera che il legame con quella città venga reciso.



[1] Cfr., per l’aggettivazione e il riecheggiamento specifico,  Purg., III, 107: biondo era e bello e di gentile aspetto, con riferimento a Manfredi. La «donna bionda» è, nella fattispecie, Anne-Marie Stelhein, di origine americana ma residente a Parigi, conosciuta da Bassani in America, negli anni ’70, durante un soggiorno come “visiting professor” e sua focosa amante per pochi anni, in Italia: a Roma e a Maratea.

[2] Cfr., per tale aspetto, Una lapide in via Mazzini, dove il ritorno del sopravvissuto Geo Josz è un elemento perturbante e impedisce la rimozione del ricordo dei lager, proprio mentre si sta collocando la lapide del titolo su un muro della sinagoga ebraica.

[3] Cfr. In risposta (VI), in Giorgio Bassani. Opere, a cura e con un saggio di R. Cotroneo, I Meridiani, Milano, Mondadori, 1998, pp. 1325-1326.

[4] Mentre Ferrara e Roma sono, rispettivamente, le città della formazione e del successo letterario dello scrittore, Maratea (PZ) costituisce il locus amoenus della senilità, un porto di quiete affacciato sul mar Tirreno, temporaneo e rigeneratore dopo le fatiche urbane. Qui, tra Campania e Calabria, Bassani aveva comperato una casa, nel 1967, per le sue vacanze estive: una casa bianca, adeguatamente ristrutturata, nel centro del paese, in alto, e suo protettivo «nido d’aquila» per circa 15 anni (oltre che luogo di provvisori convegni amorosi con Anne-Marie Stelhein).    

[5] Cfr. P. Frandini, Giorgio Bassani  e il fantasma di Ferrara, Lecce, Manni, 2004, p. 25.

[6]Ibidem. In particolare, la sovrapposizione dei ruoli tra casa e cimitero è evidente nel romanzo Il Giardino dei Finzi Contini, con la prossimità tra la magna domus e il monumentale cenotafio, tarlato dal tempo, dell’illustre famiglia ebrea. Ovviamente non è senza significato, da tale punto di vista, neppure il prologo dell’opera, con la visita alla necropoli etrusca di Cerveteri e il collegamento tra gli antichi Tirreni e gli Ebrei. 

[7] Cfr. In risposta (VI), in Giorgio Bassani. Opere, cit., p. 1323.  

[8] Cfr. A. Berardinelli, Un’altra storia in versi, in M. I. Gaeta (a cura di), Giorgio Bassani.Uno scrittore da ritrovare, cit., p. 46: «Uno dei nostri prosatori più pazientemente devoti al passato, uno dei più attenti, ossessivi custodi della memoria, si era trasformato [con le raccolte Epitaffio e In gran segreto]in un sacerdote del puro presente».

[9] Cfr. G. Bassani.Il romanzo di Ferrara, Milano, Feltrinelli, 2012, p.780.    

[10] Cfr. In risposta (VI), cit., p. 1322.   

[11] Per la disamina specifica ci si avvarrà, prevalentemente, del saggio di S. Nezri-Dufour, Lo spazio bassaniano:metafora e concretizzazione di un’idea dell’esistenzaCroniques italiennes web 28 (2/2014), pp. 234-248.

[12] Cfr. quanto scrive R. Cotroneo, Introduzione, in G. Bassani, Opere, cit., p. LIII: « … Bassani ha concepito la sua produzione narrativa come un’unica opera, fatta di fili che si intrecciano, anche per poco, quanto basta per far tornare alla mente un personaggio, un angolo di Ferrara, un pensiero di un racconto precedente».

[13] Utili risultano a riguardo anche le considerazioni di P. Frandini, in G. Bassani e il fantasma di Ferrara, cit., p. 77: «Il romanzo di Ferrara è romanzo perché organismo perfettamente conchiuso, con una sua logica interna. La sequenza nella quale sono state disposte le storie riflette la volontà dello scrittore di configurare un corpo attivo, ove i singoli episodi, ognuno nel ruolo che gli compete, sono indispensabili alla radiografia di un tutto».

[14] Cfr, Intervista a Bassani di A. Geraldini, L’inquietante Micòl non è dunque esistita?, «Corriere d’informazione», Milano, 1962: «Si, … io sono uno storicista. Volevo fare la storia. E allora uno storicista se non bada al tempo, ai giorni, alle date… Certo c’è l’afflato, diciamo sentimentale, ma c’è la volontà dello storicista. Si ricordi che io sono anche un saggista e dunque al romanzo applico le pretese del saggismo, della filologia».

[15] Cfr. Un’intervista inedita (1961), in G. Bassani. Opere, cit., pp. 1346-1347.

[16] Si vedano almeno, oltre agli studi citati, G. Oddo De Stefanis, Bassani entro il cerchio delle sue mura, Ravenna, Longo, 1980; AA.VV., Bassani e Ferrara. Le intermittenze del cuore, Atti del Convegno, a cura di A. Chiappini e G. Venturi, Ferrara, Corbo, 1995; Giorgio Bassani: la poesia del romanzo, il romanzo del poeta, a cura di A. Perli, Ravenna, Giorgio Pozzi editore, 2011.

[17] Cfr. Par., XV, 97 ss.

[18] Cfr., in particolare, le poesie Valle dell’Aniene (da Te lucis ante) e Saluto a Roma (da Storie di poveri amanti).

[19] Sui rapporti di Bassani con Ferrara e Maratea è stato realizzato un importante convegno di studi nei giorni 10-11 agosto 2012. Tale convegno, intitolato G. Bassani. Due città nel cuore: Ferrara e Maratea, si è svolto nella cittadina lucana, presso Villa Tarantini, ed è stato accompagnato e seguito da una mostra sullo scrittore. Dei lavori delle due giornate resta soltanto una registrazione al magnetofono, di cui però non ho potuto avvalermi, nonostante la disponibilità, verbatim, della prof. Tina Polisciano, organizzatrice del convegno.   

[20]Cfr., oltre a quelle citate infra, Lettera, Sul PollinoI grandi (da Epitaffio).   

[21] La lirica fa parte della raccolta Epitaffio, ora in G. Bassani. Opere, cit., pp. 1430-1432.

[22] I luoghi ferraresi evocati sono, in successione: il castello Estense, corso Giovecca, la chiesa di San Carlo, quella dei Teatini, il marciapiede Folchini (con relativa pasticceria), via Madama, via Cisterna del Follo, il Montagnone. 


[1] Cfr M. I. Gaeta (a cura di), Giorgio Bassani. Uno scrittore da ritrovare, Roma, Farheneit 451, 2004. Si tratta degli Atti del convegno eponimo, tenutosi nella Capitale a febbraio-marzo del 2003.