Il cestino della speranza

25 aprile, Festa della Liberazione. Una testimonianza raccolta da Emerita Cretella

La storia di Ottaviano Pieraccini raccontata dalla figlia Nina

 

Nina, anzi Ninani, come amava chiamarla suo padre Ottaviano Pieraccini in un tenero gioco di parole, aveva sei anni quando lo vide per l’ultima volta : «Ricordo ancora chiaramente il babbo che guardava in alto, verso un palazzo vicino dove io e la mamma ci affacciavamo quando i detenuti cortile del carcere di San Vittore uscivano per l’ora d’aria. Il portiere del palazzo, che sapeva quando uscivano i detenuti, ci faceva salire nel terrazzo così potevamo vederlo. La volta dopo però dal cortile le guardie cominciarono a sparare in aria, qualcuno forse ci aveva notato . Da allora non l’ho più rivisto».

Comincia così la testimonianza di Nina. Siamo nel 1944 e suo padre, per una spiata fascista, viene arrestato a Milano e tradotto nel carcere di San Vittore. Ottaviano Pieraccini è un giovane avvocato che dopo la morte di Roberto Veratti, con il quale aveva fondato a Milano, insieme ad altri antifascisti, il Movimento di Unità Proletaria, diventa una figura di spicco della Resistenza del Nord Italia. Nato a Macerata, Ottaviano ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza ad Arezzo, dove il padre Arnaldo, medico alienista originario di Poggibonsi, dirigeva l’ospedale psichiatrico. Cresciuto in una famiglia di ideali socialisti, Ottaviano aveva ereditato dal padre e dallo zio Gaetano Pieraccini (il “Sindaco della Liberazione” di Firenze) altruismo, coraggio e integrità morale. A Milano, dove si era trasferito dopo la laurea in legge, cominciò ad esercitare la professione di avvocato ma, per il suo rifiuto a iscriversi al partito fascista non poté più esercitare. «Da quel momento, ricorda Ninani, il babbo entrò nella lotta clandestina e, per mantenere la famiglia, preparava le comparse per altri avvocati che non sempre pagavano il lavoro svolto. La mamma, Olga, per guadagnare qualcosa lavorava a maglia per un noto negozio di Milano. Fummo costretti a trasferirci in una casa senza portiere per evitare di essere sorvegliati, e ricordo un bellissimo giardino con un grande albero di fichi. Alcune volte, insieme alla mamma, portavo dei messaggi clandestini in un cestino sotto i fichi. Ero contenta di portare quel cestino in giro: la mamma mi diceva che in quel cesto c’era la speranza per tante persone».

Quando Ottaviano viene arrestato anche Olga, ma soprattutto Ninani, alla quale il padre era legatissimo, già così piccola diventa una “ricercata”: «Da quel momento anche la nostra vita fu difficile, racconta, eravamo sempre in fuga. Pensavano che prendere me fosse l’unico modo per far parlare mio padre. Per fortuna il babbo aveva molti amici che ci proteggevano e ci trovavano posti dove potevamo nasconderci. Ci spostavamo continuamente: una sera dormivamo in un convento, la sera dopo da un’altra parte e io non potevo dire a nessuno come mi chiamavo».

Da San Vittore Ottaviano Pieraccini viene trasferito a Fossoli: «Qui mia madre lo vide per l’ultima volta. Mescolata ai contadini che zappavano fuori del campo riuscì a salutarlo e a fargli sapere che stavamo bene».

Successivamente Ottaviano è deportato nel campo di concentramento di Mauthausen, dove fu messo a lavorare in una cava di pietra a trasportare massi: «Il babbo parlava bene il tedesco, e a chi conosceva questa lingua nel campo venivano date mansioni meno dure . Lui disse di non saperlo parlare».

Per le durissime condizioni di vita nel campo Ottaviano si ammala gravemente e assistito dall’affetto dei suoi compagni muore il 25 marzo 1945. Così descrive la sua morte un compagno di prigionia sopravvissuto (Mino Micheli, I vivi e i morti, Mondadori, Milano): «Nelle pause che il grave male gli concedeva pensava al domani, alle future lotte… ormai parlava a stento, ma nelle sue parole tronche vi era ancora il gusto dei discorsi di un uomo vivo, giovane, non di un moribondo: di un uomo preoccupato del destino del suo Paese… Quella mattina tutto in lui sembrava spento, gli sollevo la testa, lo chiamo, solleva appena le palpebre e ho l’impressione che mi veda e mi riconosca. Gli parlo, gli faccio il nome di sua figlia “Ninani!”. Socchiude gli occhi e i il suo volto ha una contrazione. Gli adagio la testa sul pagliericcio, tiro le coperte sulle mani fredde incrociate , e vado via con la tempesta nel cuore. Addio povero Ottaviano».

Termina qui la storia che Ninani ha voluto raccontarmi, una storia simile a tante altre di quel periodo in cui l’eroismo di gente comune, gli ideali, le speranze, l’amore per il proprio Paese, hanno dato vita a quel grande, straordinario movimento che è stata la Resistenza.

Sono trascorsi tanti anni da allora, i tempi sono cambiati e stiamo assistendo, nonostante i progressi tecnico-scientifici, ad un progressivo imbarbarimento della società e della politica, alla logica dei mercati che sembra contare più degli esseri umani; ad una rimozione graduale della memoria, ad una manipolazione della storia e dei fatti da parte di gruppi di potere che controllano i media. Tutto viene consumato velocemente, gettato via insieme alla speranza e alla fiducia nel futuro,

C’è bisogno di cercare nuove strade, di colmare il vuoto lasciato dalle ideologie con valori , idealità che ci uniscano in un’esperienza volta al “bene comune”. Mi piace pensare che nel cestino di quella piccola staffetta partigiana e nel sacrificio di suo padre ci siano messaggi di speranza anche per noi. Se sapremo leggerli con umiltà e coraggio potremo farcela. Grazie Ninani.