L'amore delle donne tra sudditanza e immaginazione


Fu la prima donna ammessa all’Accademia europea del Disegno di Firenze in un periodo storico, il Cinquecento, in cui il mestiere di pittore veniva esercitato quasi esclusivamente dagli uomini.

Artemisia, figlia del più famoso Orazio Gentileschi, non ebbe vita facile. Nel 1611, stuprata brutalmente da un pittore amico del padre, Agostino Tassi, venne processata sotto tortura dal Tribunale inquisitore. Una sofferenza che segnò profondamente anche i suoi dipinti, tra i quali Giuditta che decapita Oloferne, in cui anticipa toni e colori del Caravaggio e nel quale molti critici videro la sublimazione del suo desiderio di vendetta. L’episodio è stato raccontato dal film Artemisia. Passione estrema di Agnes Merlet.

 


 

 

 

Antigone, che Sofocle scopre nella sua tragedia, fa emergere una femminilità più simile a Penelope, lontana dall’irrazionalità di Medea ma ancora incapace di far valere sentimenti di pietà sulla vendetta e sull’autoritarismo di Creonte. L’unica via d’uscita per lei sarà la morte per propria mano, preferita a un destino altrettanto crudele deciso per lei da altri.


 

 

A Bagheria, in quel secolo detto “dei Lumi”, che non sfiora la ristrettezza di costumi e le prevaricazioni della società siciliana.

Una bambina stuprata dallo zio (chiamato “Gambero Rosso” per il colore dei vestiti che indossava) alla tenera età di cinque anni; un’adolescente sordomuta, gentile nell’aspetto quanto di rara intelligenza e sensibilità, ceduta in sposa dalla famiglia per garantire legami di potere a soli tredici anni; una donna adulta che insegue la propria libertà.

Sono la stessa persona, Marianna Ucria, la cui voce è giunta a noi come un sussulto dal romanzo di Dacia Maraini, tradotto sulla scena cinematografica dal regista Roberto Faenza.

Una storia cadenzata, fin dal trauma che la rese sordomuta, dal ritornello «e pi e pi e pi, sette femmini p’un tarì».

Presenze soffocanti nella vita di Marianna, che volevano relegare al fittizio ruolo di mugghieri, hanno reso il suo silenzio metafora inquietante di oppressione da cui la donna riuscirà a emergere per il suo desiderio di conoscenza e la sua stessa diversità.

 


 

 

Dalla trama dell'Amleto shackespeariano l'amore di Ofelia si trasforma in follia.Subalternità all’uomo amato,dipendenza fisica e psichica da una ragione, quella del protagonista appunto, che perde la ragionevolezza. Vittima inconsapevole di una suburdunazione culturale ed esistenziale che non le riconosce una soggettività autonoma.


 

 

Donna Lionora, così la chiamavano, fu condotta alla ghigliottina per il suo impegno politico e civile a favore della Rivoluzione giacobina. In quel breve periodo in cui Napoli visse l’esperienza politica e governativa della Repubblica partenopea, la marchesa Eleonora Pimentel Fonseca entrò a far parte del Comitato rivoluzionario. Il suo nome è legato alla direzione del Monitore napoletano, il giornale che non fu solo strumento di informazione sulle vicende del governo repubblicano, ma anche espressione di ideali e principi politici e sociali tesi a promuovere la causa dell’emancipazione del popolo dalla tirannia. Uno sforzo che non solo non fu compreso, ma fu punito con una morte ignobile: sul patibolo Eleonora fu vituperata da ingiurie e sarcasmi, da parte di quello stesso popolo che da uno stato di sudditanza avrebbe voluto elevarsi al rango di cittadinanza nel senso pieno del termine.

Colta e di animo sensibile, poetessa di alto valore tanto da venire accolta prima nell’Accademia dei Filateti e poi in quella del poeta Metastasio, in seguito alla morte di un figlio e ai tradimenti di un marito violento e ignorante si dedicò interamente alla causa rivoluzionaria facendo proprie le idee del filosofo Filangieri. La immagino sul patibolo con le mani legate dietro la schiena, nel momento in cui, soffocata dall’afa e dalla ressa della folla, le stanno stringendo il cappio intorno al collo e riesce a malapena a ripetere le parole di Virgilio: «Forsan et haec olim meminisse iuvabit».