Legalità, pace, cittadinanza. Luoghi vivi dell’onestà

Pubblicato in M. Borrelli-G. Serio, "Educare all'onestà oggi nella famiglia, nella scuola, nelle istituzioni", Aprile 2011, Pellegrini Editore.

Sebbene per natura io non sia onesto,

 lo sono per caso,

di quando in quando.

William Shakespeare

 

Gli altri rimangono, in noi, col loro segreto:

come fuori di noi

Lalla Romano, L’uomo che parlava solo

 

 

Ci piace pensare all’onestà come un traguardo che può essere raggiunto nella vita di tutti i giorni, ma sappiamo bene che il termine assume più lo spessore dell’utopia che quello della concretezza, altrimenti non potremmo spiegarci tanto le indifferenze sociali quanto gli omicidi e le tante illegalità.

 

Si configura, comunque, come un modo d’essere con il quale designare, e il più delle volte facendo riferimenti a pregiudizi, questa o quella persona. In ogni caso l’aforisma shakespeariano così come il dramma pirandelliano “Il piacere dell’onestà” ci invitano a ripensare le diverse sfaccettature che può assumere l’identità umana, laddove riesce quasi sempre a svelare una verità falsata da ambiguità e ipocrisia, convenzioni e interessi di vario tipo. Con un atteggiamento cinico il protagonista pirandelliano riuscirà a far emergere la disonestà di formalismi piccolo-borghesi contrapponendovi la propria intelligente onestà. E proprio nel cinismo si consuma la verità del superuomo nietzscheiano laddove il filosofo che annunciò la morte di dio, esaltando l’interpretazione sul fatto stesso, ne considerò la forma come la sola “sotto la quale le anime volgari rasentano l’onestà”.

 

Il valore di quella che nella tradizione latina e cristiana veniva considerata una delle virtù alla base del riconoscimento pubblico perde il proprio significato di fronte alla forza della persuasione mediatica e delle reificate retoriche sofistiche, tanto che, paradossalmente, se volessimo individuare il luogo dell’onestà per antonomasia ci dovremmo affidare alla tecnica e “santificare” l’oggetto computer metro di un valore che, invece, dovrebbe essere a fondamento del vivere civile e della stessa umanità. Di ciò se ne rese conto Isaac Asimov che notò come “parte della disumanità del computer è che, una volta che è programmata con competenza e buon lavoro, è completamente onesto”.

 

“Sono onesto per caso”, afferma Shakespeare svelando una natura umana aliena da vani romanticismi e, se proprio volessimo andare fino in fondo, troveremmo la massima secondo cui “l’onestà non paga”, o meglio ha un suo prezzo che, a livello micro sociale vorrebbe dire esclusione, mancanza di considerazione, deprezzamento.

 

Ma l’uomo vola anche alto, pensando e ripensando ai grandi ideali e alle grandi possibilità di rapporti leali e sinceri. Il problema rimane inequivocabilmente legato alla crisi della ragione e alla riflessione epistemologica sulla post-modernità che ha spostato il discorso speculativo dal metafisico alle regole dei giochi linguistici e alle relative semantiche, pur rimanendo all’interno di un discorso metafisico, come ripetutamente ci fa notare Michele Borrelli attraverso testi maturati in una linea di ricerca critico-dialettico-trascendentale. La sfida consiste allora nell’evitare che l’uomo appiattisca la propria vita su una contingenza che può solo subire, privo di speranza, emancipazione, o anche, potremmo aggiungere, di sola illusione. Un discorso sull’onestà non può essere pertanto avulso da un discorso sul congedo da una ragione metafisica, come vorrebbero i filosofi del postmoderno.

 

Il termine insomma chiama in gioco diversi piani di riflessione: da quello della comunicazione informale e formale a quello espressivo-esistenziale, a quello più espressamente legato al reato e quindi a questioni di legalità. Piani che richiamano, appunto, al concetto di verità e al rapporto con il sapere che nell’accezione postmoderna ha assunto caratteri di relatività, ma anche ai rapporti di potere socio-economici che insistono a livello di micro e macro realtà.

 

Parlare di onestà vuol dire dunque deframmentare i vari livelli sociologici sui quali si esprime l’identità e chiedersi se si possa ritrovarne il senso nel rapporto che ciascuno ha con la propria coscienza; vuol dire pertanto scardinare e ripulire da ideologie, semmai fosse possibile, il termine che esso stesso fiorisce da impostazioni di pensiero e orientamenti oggi in bilico. Vuol dire anche individuare quei luoghi di contraddizione e ambiguità nel discorso pubblico e istituzionale che lasciano spazi di legittimità a interpretazioni diverse e l’onestà come la verità viene attribuita a situazioni disomogenee.

 

Il senso di quest’intervento nasce dal tentativo di comprendere, seppure semplicemente abbozzando alcune situazioni di problematicità, se si possa ancora parlare di onestà nei termini indicati dalla tradizione fondata su un concetto unitario di verità o se, per entrare a far parte della prassi educativa, il concetto non debba essere ridimensionato privilegiandone l’aspetto più propriamente pubblico. Ovvero: prima di chiederci se sia possibile educare all’onestà, dovremmo capire in che modo il termine può essere coniugato alla realtà creando situazioni appetibili. D’altra parte non bisogna dimenticare che nel senso della paideia greca il termine stesso di educazione non è scisso da quello di virtù e ancora oggi rimane inequivocabile la valenza etica dell’agire educativo. Altrimenti potremmo giustificare i risultati di un’educazione mirata alla formazione di individui disonesti e indicare come bravi pedagogisti cattivi maestri. Insomma il problema, in questi termini, mi sembra di grande rilevanza pedagogica in quanto chiama in causa la stessa giustificazione dell’azione educativa sulla quale, d’altra parte, si è da sempre incentrata la ricerca di senso dell’educazione.

 

Penso, dunque, affidandomi ai richiami della nostra tradizione pedagogica, che il concetto di onestà sia già intrinseco, anche se in modo problematico, nello stesso concetto di educabilità. In senso generale parlare dell’uno o dell’altro sarebbe identico. La possibilità di educare all’onestà, inoltre, richiama problematiche didattico-relazionali, ma anche quello di ordine etico sul comportamento onesto. In che termini possiamo infatti definire un comportamento “onesto”?

 

Il problema potrebbe essere di facile soluzione se colleghiamo il concetto di onestà a quello di aspettative sociali, ovvero ai comportamenti che ci attendiamo dagli altri, ma sappiamo bene che questi sono maggiormente possibili in un sistema di regime dittatoriale, governato da regole ferree e relative sanzioni, mentre in un sistema liberale e democratico deve essere rafforzato da motivazioni e convinzioni profonde sia a livello personale che comunitario. Tuttavia dovremmo rilevare che nel primo caso le aspettative, per quanto rispettate, non corrispondano nella maggior parte dei casi a quanto voluto dal singolo che agisce in un determinato modo solo perché obbligato da una norma eteronoma. Non penso che in questo caso possa parlarsi di onestà. Solo se riferiamo l’onestà a quel concetto platonico di virtù in stretta connessione al bello e al buono riusciremmo a recuperarne un senso. L’onestà non può cioè prescindere da quel concetto di etica universale che rende l’uguaglianza di diritti e doveri tra gli uomini nel rispetto della diversità di ciascuno. Kant sintetizzò questa intuizione nell’aforisma “Onesto è colui che cambia il proprio pensiero per accordarlo alla verità. Disonesto è colui che cambia la verità per accordarla al proprio pensiero”.

Siamo di fronte al caso, per esempio, in cui due uomini di cultura diversa ritengono agire nel rispetto dell’altro rinunciando a scontate determinazioni dettate dalle rispettive tradizioni. Sarebbe un tipo di “disonestà” fondata su un’impostazione universale di onestà. Ritengo che l’educazione e soprattutto quella interculturale dovrebbe basarsi su un tale assunto anche se vorrebbe dire rinunciare ad un tipo di identità localistica e confinata in quadri concettuali pre-stabiliti.

All’essere onesto in modo autonomo dovremmo aggiungere anche l’accettazione comunitaria di tali azioni perché l’onesto non si identifichi con l’eroico ma con il condiviso.

 

Educare all’onestà è quindi innanzitutto un agire comunicativo in senso democratico. Entreremmo nello spazio del dibattito aperto da contributi autorevoli di Apel e Habermas.

Per lo stretto rapporto tra educazione, democrazia e valori come quello di onestà più che parlare di educazione all’onestà, proprio per l’ampiezza di un concetto che assume le dimensioni proprie di principio, si dovrebbe parlare di educazione alla legalità, educazione alla pace, educazione alla cittadinanza. Questi ultimi sono ambiti strettamente collegati tra di loro soprattutto perché pervasi da una stessa idea di trasparenza, lealtà, sincerità, validi per la formazione di uomini e donne che vivano in piena autonomia la propria realtà di appartenenza al mondo.

Ridurre l’ambito vuol dire far affiorare esempi e metodi, situazioni concrete in senso intenzionale. Liberare il concetto da pericolosi ossimori legati alla testimonianza, come ha dimostrato Jacques Derridà nel testo “Dimora. Maurice Blanchot”. L’onestà della testimonianza, dimostra da un punto di vista ermeneutico-linguistico, permane nel suo segreto, laddove l’onestà si configura invece come assenza di segretezza.

La formulazione di questa prima ipotesi, ovvero la considerazione di sottoinsiemi in cui comunque prende consistenza reale l’onestà, è dovuta anche alla considerazione del movimento concettuale che nel tempo ha pervaso, trasformandolo, lo stesso termine. Non da ultimo, la drammaticità di un confronto con una verità frammentata e multipla. E infatti, ristretto in territori angusti e maggiormente problematizzato, l’onestà da concetto religioso, proprio della scolastica, teologico-cristiano, si è per così dire secolarizzato modificandosi, in un contesto economico-liberalista, in credibilità o efficienza o ancora efficacia. Termini, questi ultimi, che si prestano ad un quantificazione dell’operatività, al rendimento in termini economici-finanziari, recuperando in questo contesto il significato originario legato all’honos e al merito. Una restrizione dovuta, evidentemente, se volessimo recuperare il contributo di Heidegger, al predominio della tecnica sulla ragione umana e sulla stessa umanità.

In generale, invece, avvertiamo che il senso di reputazione che accompagnava la vita pubblica dei romani ha perso il suo lustro per cui il consenso, con il potere che ne deriva, viene attribuito a chi sarebbe privo di honos mentre l’essere onesti sembra sempre meno accompagnato da gratificazioni e riconoscimenti pubblici, sopraffatto molte volte da poteri arroganti. L’attaccamento al proprio dovere ha creato martiri. Ce lo ricordano le figure di due magistrati come Falcone e Borsellino.

Vittime di mafia, vittime di un conflitto tra valori: da una parte l’arricchimento oltre i limiti dello stesso liberalismo da cui dipendono prestigio e potere, dall’altra le garanzie istituzionali per la libertà e l’uguaglianza dei cittadini.

 

Al di là dunque di afflati romantici, l’onestà in senso tradizionale rimane un enigma che mostra grandi difficoltà nel rendersi flessibile alle complessità della realtà contemporanea. Considerando i tre ambiti di educazione alla legalità, educazione alla pace, educazione alla cittadinanza, l’onestà permane, tuttavia, come sottofondo indispensabile nei legami sintattici e grammaticali, e pertanto nella formulazione di frasi vere, così come nella sovrapposizione tra idea e fatto, teoria e prassi, ma le azioni di ciascun ambito sembrerebbero maggiormente controllabili in quanto legate in modo diretto a comportamenti pubblici visibili.

Si dovrebbe tuttavia capire come tradurre nella prassi la convenienza o l’utilità dell’essere onesti, ma anche di come costruire e fondare questa convenienza e questa utilità laddove invece vengono adattati al monopolio della tecnica. Legalità, pace, cittadinanza rappresentano i luoghi vivi dove maturare l’onestà che altrimenti rischia di rimanere, utilizzando una metafora di Derridà, un semplice “simulacro” di se stessa.

Una presenza assordante, quella della tecnica, in quanto ci limita a vedere l’uomo stesso come oggetto (de-soggettivato) e l’oggetto se non come oggetto e per le sue funzioni. Ci impedisce di ascoltare gli aspetti umani che traboccano l’usuale e la normalità. Di spostarci su piani difformi dall’esistente e dalle banalità. Siamo lontani da quella ricerca della felicità che soprattutto dalla scuola peripatetica in poi animò le discussioni filosofiche così da diventare per i cristiani trait-d’union tra onestà e vita eterna. Ne I doveri S. Ambrogio evidenzia come la fede in Dio sia sostenuta dagli stessi giudizi che hanno preceduto quello di un credente come lui e, come questi , allo stesso tempo, vengano superati dalla Scrittura. La felicità è collegata ai doveri che derivano dall’onestà, ma non riguarda più la vita terrena quanto la vita eterna. “Lo splendore dell'onestà è così grande che la tranquillità della coscienza e la certezza d'essere senza colpa, che ne conseguono, rendono felice la vita”, ma la ricompensa può essere affidata solo al giudizio di Dio. Qui la ricompensa fonda la vita stessa in un rapporto continuo con il metafisico, nelle tendenze di pensiero contemporanee sparisce insieme alla ricerca del buono, per lasciare posto all’utile e al conveniente. Penso che un passaggio importante nella storia del pensiero nel senso appena citato lo dobbiamo, volenti o nolenti, a Spinoza. Con la sua Ethica il buono viene legato all’utile fin dalla prima definizione della quarta parte, dove analizza “la schiavitù umana, ossia le forze degli affetti”, ma il passaggio ad una concezione relativistica del bene e del male come “modi del pensare o nozioni” è già compiuto quando scardina la causa finale aristotelica riducendola ad “appetito”. Dalla proposizione 24 viene così ribaltato il significato originario di virtù. “Agire assolutamente per virtù – afferma infatti – in noi non è niente altro che agire, vivere, conservare il proprio essere (…) sotto la guida della ragione, e ciò sul fondamento di ricercare il proprio utile”. Agendo per virtù, ovvero assecondando le leggi della propria natura l’uomo appaga seguendo i dettami della ragione esigenze di autoconservazione che si realizzano prioritariamente unendosi ai propri simili, poiché per Spinoza è anche vero che vivendo sotto la guida della ragione che gli uomini si accordano meglio per natura. Pertanto la ricerca dell’utile secondo ragione non vuol dire inseguire l’istinto e la passione, ma porsi come essere libero, soggetto attivo nei confronti della propria tendenza all’autoconservazione. L’onestà sarebbe in questa libertà di agire secondo la propria natura. Pertanto è de-contestualizzata, ovvero universale, scissa da interessi egoistici e particolari, come potrebbe essere letta e giustificata oggi in qual cambiamento semantico dovuto all’egemonia della tecnica e alla dissoluzione della metafisica nel nichilismo. E Borrelli stesso ci mette in guardia dagli esiti distruttivi della performatività, contingenza, ironia quali conseguenze di una ragione che rinuncia a se stessa.

 

Considerare l’onestà all’interno di ambiti che s’incrociano negli obiettivi adatti al raggiungimento di una convivenza civile non vuol dire rimanere all’interno della contingenza storica ma evidenziare una tensione etica che non cederebbe alla semplice immediatezza il rigore della necessità e universalità di kantiana memoria.

 

 

Francesca Rennis