L'esperienza dell'INTEGRAZIONE italiana nel contesto europeo

Il nuovo paradigma

 

Il concetto di integrazione è strettamente legato a quello di diversità. Infatti, l’idea di diversità come dimensione esistenziale e non come condizione emarginante ha permesso di ripensare l’educazione in termini di “sistema integrato” in cui anche la persona con handicap trova il giusto riconoscimento. In quest’ottica, la diversità, che caratterizza l’identità personale e culturale di ciascuno, viene capita come valore e motivo di crescita per l’altro . Allora, una volta riconosciuta la differenza concettuale tra deficit e handicap , si può evidenziare che «una buona integrazione non significa diminuzione del deficit, ma diminuzione degli handicap» . Quando si parla di integrazione si fa dunque riferimento ad un paradigma di tipo ecologico che considera l’integrazione della persona con se stessa, della persona con l’ambiente socio-culturale in cui vive, ma anche tra le diverse prospettive epistemologiche e tra le istituzioni .

«L’attenzione si sposta verso l’identificazione delle particolarità di ciascun soggetto in funzione delle forme multiple della sua intelligenza, della pluralità dei suoi stili cognitivi e delle strategie di apprendimento, della varietà delle sue forme di espressione e di comunicazione, dell’originalità del suo passato intellettuale ed affettivo, concentrandosi nella valorizzazione di un percorso di vita. Nascono nuove opportunità formative adatte a motivare, orientare e sostenere lo sviluppo dell’individuo nella sua complessità» .

 

In questo quadro si inserisce una nuova cultura dell’handicap che investe normodotati e disabili, sganciando questi ultimi dalla passività per scoprire invece quel ruolo attivo, dimenticato dalla storia .

L’impianto paradigmatico che riconosce il disabile come portatore non di handicap, ma di valori umani imprescindibili, è reso operativo dal punto di vista didattico in progetti “integrati” ed articolati che, pur presentando difficoltà di tipo organizzativo e strutturale, costituiscono una conquista del nostro tempo, conseguenza tutt’altro che immediata di un percorso culturale faticoso e per molti versi pionieristico. Un salto di qualità che ha significato, da un lato, l’uscita dall’ottica pietistica e assistenziale, dall’altro, dal vittimismo dell’emarginazione e del disadattamento.

 

Un breve excursus storico

 

La storia dell’integrazione è tappezzata di ostacoli ideologici sia dal punto di vista sincronico che diacronico. Il secondo aspetto è funzionale per comprendere come a livello sincronico l’integrazione non abbia trovato risposte uguali e coincidenti in Europa. Dall’antichità fino al nazismo l’esistenza di chi era diverso è stata contrassegnata in maniera negativa. Solo alcune tendenze di tipo pietistico-religioso, legata alla presenza dei diaconi nella Chiesa, hanno portato un conforto che tuttavia non superava le mura domestiche o dei ricoveri. Le poche eccezioni nate durante il positivismo e la presenza in Italia di Maria Montessori non hanno potuto incidere sulla qualità della vita delle persone che invece per la loro disabilità venivano considerate durante il nazismo un pericolo genetico, un ostacolo alla purezza della razza. Contro ogni conformismo si sono costituite le scuole per anormali che sviluppando gli studi di Itard e Seguin, della Montessori e del De Santis, si occuparono anche con notevole efficacia dell’educazione degli anormali. Lo sviluppo di questa linea portò negli anni Sessanta alla proliferazione delle scuole speciali basate sul concetto che ad ogni tipo di bambino dovesse essere offerta la sua scuola. Nonostante il lodevole tentativo le scuole speciali rispondevano ad esigenze di tipo immediato essendo anche lontane da un quadro di riferimento teorico e legislativo, che invece venne avanzato solo a partire dagli anni Settanta quando si cominciarono a privilegiare le ragioni dell’uguaglianza e della necessità di inserimento degli handicappati nelle strutture comuni .

Questi eventi hanno contraddistinto soprattutto la storia dell’Italia andando a sedimentarsi come esperienze dense di significato nella mentalità culturale . Da allora l’integrazione dei disabili, soprattutto in ambito scolastico, è stata accompagnata dalla sensibilità dell'opinione pubblica, dalla preparazione specifica degli operatori scolastici ed extra-scolastici, sono state varate norme di garanzia e di tutela.

Una crescita culturale che tuttavia ha permesso di relativizzare l’impegno riflettendo sulle carenze e sui problemi che impediscono ancora una effettiva e completa integrazione. In particolare, si è rilevata l’insufficienza di una rete di collegamenti e la diretta connessione tra integrazione del disabile e interazione dei servizi , anello debole della catena per cui è più che ipotizzabile presupporre che l’impegno non riguarda solo l’aspetto culturale quanto l’adeguamento di politiche educative e sociali. Simmetrico al dibattito sull’integrazione è stato quello sull’inserimento occupazionale del disabile. L’educazione del disabile, infatti, non è fine a se stessa, ma deve garantire, nello stesso tempo, l’acquisizione di competenze sociali e l’apprendimento professionale .

 

L’esperienza italiana e quella europea

 

In Italia, comunque, il processo di integrazione è solo agli inizi in quanto la rete sociale di supporto deve essere ancora costruita. Non si può pensare infatti che tale processo possa dipendere unicamente dalle caratteristiche della persona o dalla gravità delle sue menomazioni e disabilità. Le “determinanti dell’integrazione”, suggerisce ancora Soresi,

«andrebbero ricercate “fuori” dalla persona disabile, nella qualità dei servizi sociosanitari erogati, nelle caratteristiche degli ambienti scolastici e lavorativi, e nelle tendenze presentirei gruppi sociali ad accogliere o a emarginare le situazioni di conclamata diversità. La presenza di integrazioni insoddisfacenti richiede spesso, oltre alla denuncia delle inadempienze, l’analisi e la modificazione dei contesti in cui la persona disabile si trova inserita, ricercando nella qualità e quantità dei supporti sociosanitari messi a disposizione, nelle condizioni lavorative e negli atteggiamenti che “gli altri” nutrono a proposito dell’integrazione delle persone disabile, le cause di eventuali insuccessi» .

 

In Europa il dibattito si è arenato sull’educazione speciale, ovvero sulla ricerca di «risposte specializzate a bisogni “speciali” di alcuni alunni» , nonostante il problema della tutela sociale dei soggetti disabili sia ampiamente avvertito a livello dei Paesi Comunitari, come dimostrano la "Carta dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori" (1989), che garantisce la partecipazione dei disabili a tutti gli aspetti della vita sociale e professionale, il programma quadriennale d'azione comunitaria volto alla promozione e allo sviluppo dell'integrazione delle persone disabili denominato "Elios II" e varato dal Consiglio dell'Unione Europea nel 1993 , anno in cui l’ONU approva le “Regole standard per l’uguaglianza delle pari opportunità delle persone handicappate” . Le conclusioni di questo percorso hanno portato nel 1996 alla redazione della Carta di Lussemburgo , che per quanto presenti alcune ambiguità di fondo , sollecita gli Stati membri a recepire la nuova prospettiva. Ma il quadro di riferimento ideale che ispira e guida attualmente la politica comunitaria in materia di educazione dei soggetti in situazione di handicap è da ricercarsi nella Dichiarazione di Salamanca. Tale documento è nato a seguito della conferenza mondiale sull'educazione e i bisogni educativi speciali, tenutosi a Salamanca nel giugno del 1984.

Il principio ispiratore di tale documento, formalizzato nella dicitura "ad ogni persona deve essere garantito il diritto all'educazione, abolendo ogni spazio di esclusione e di marginalizzazione", contribuirà a dare forma al concetto di "scuola centrata sui bisogni degli allievi", con programmi e percorsi formativi che si adattano all'allievo e non viceversa. Inoltre all'interno della dichiarazione compare la "Cadre d’action" che rappresenta un complesso di orientamenti pratici che risultano particolarmente preziosi allo scopo di conciliare tra loro le diversità rappresentate dai sistemi educativi per soggetti in situazione di handicap messi in atto nei vari Paesi dell'Unione Europea. Nella dichiarazione si sostiene che le classi speciali, dove esistono, non devono essere abolite, ma trasformate per finalità e ruolo in modo da fornire un valido appoggio professionale alle scuole ordinarie. Infine secondo la dichiarazione deve essere potenziato il rapporto tra la scuola e le altre agenzie formative, in primis la famiglia, che dovrà partecipare alla pianificazione educativa e ad ogni decisione. Precedentemente, nel 1981, le Nazioni Unite avevano bandito "l'Anno Internazionale del handicappato" e il 24 luglio 1986 il Consiglio d'Europa aveva emanato un documento in cui si raccomandava di assicurare ai disabili il "traitement equitable". Una posizione, quest’ultima, che ha subito una flessione nella Carta europea dei diritti (Nizza, 7 dicembre 2000), in cui i riferimenti ai principi di pari opportunità e di non discriminazione sono stati formulati in modo generico senza riferimenti precisi alla prassi educativa .

L’esperienza italiana precorre, dunque, le risposte differenziate dei paesi comunitari che si sono articolati in sistemi d’inserimento anche non univoci. Pertanto, le soluzioni possono essere raggruppate nelle seguenti tipologie: educazione speciale completamente separata, educazione speciale separata ma occasionalmente collegata con scuole comuni (extrascolastiche), classi speciali in scuole comuni, inserimento di alunni disabili in classi comuni. Il sistema d'inserimento è molto variegato e spesso soluzioni diverse coesistono, anche a titolo sperimentale, nello stesso Paese, così come ciascuna categoria di handicap viene articolata in difficoltà specifiche che vanno dall’unica denominazione utilizzata nel Regno Unito a quella multipla dei Paesi Bassi.

Premesso che i sistemi non sono assolutamente rigidi, l'educazione speciale separata è prevalentemente praticata in Belgio, con otto tipi di scuole relative ad altrettante tipologie di handicap, in Germania con dieci tipi di scuole e nei Paesi Bassi con quindici tipi. Comunque se in Germania la situazione non è la stessa per i diversi Lander, a Berlino esistono esperienze di alcuni disabili inseriti in classi comuni. Nel Regno Unito, Francia, Danimarca il sistema è di tipo misto: accanto a scuole speciali esistono classi speciali in scuole comuni ed inserimento individuale in classi normali.

La dizione usata in Gran Bretagna per l'individuazione dell'handicap (special educational needs) comprende un'ampia casistica ed è indicativa dell'attenzione che è posta nei confronti della diversità intesa in senso lato non solo come disabilità ma "espressione di bisogni particolari". In essa è implicito il concetto della "individualizzazione" dell'insegnamento riconosciuto anche dalla normativa scolastica italiana. In Danimarca la gestione è municipalizzata e, quindi, localmente diversificata. In Spagna, l'educazione speciale è fortemente ridotta; la normativa spagnola più recente "Ley de integracion social munisvalidos" (1982) prevede, accanto a scuole e classi speciali, il progressivo inserimento individuale assistito in scuole particolarmente attrezzate. Particolarmente impegnata in questo settore è la regione Basca che ha istituito numerosi "centri di risorse". In Grecia e Portogallo, l'educazione speciale è molto limitata; l'inserimento individuale in classi comuni, autorizzato dalla normativa, è largamente praticato, anche se non è adeguatamente supportato. In Grecia la specializzazione è richiesta solo da recente.

In generale si può affermare che l'inserimento dei disabili meno gravi nelle classi comuni si va progressivamente affermando in tutti i Paesi dell’Unione in parallelo con una riduzione dell'educazione speciale separata. Quasi tutti i Paesi prevedono la presenza di insegnanti specializzati e/o équipe multidisciplinari. Diversa però è la concezione dell'handicap e la risposta ai bisogni espressi dai casi più gravi. La concezione prevalente è quella di offrire risposte diversificate ad esigenze particolari da parte della medesima istituzione scolastica. Il che presuppone:

• una considerazione allargata dell'handicap come ”espressione dei bisogni speciali”;

• la generalizzazione del principio dell'individualizzazione per tutti gli alunni;

• la convinzione che l’integrazione, come occasione di conoscenza, di confronto e di rispetto tra “diversi”, costituisce un’opportunità educativa per tutti;

• la convinzione che l’azione pedagogico-didattica non può limitarsi ad analizzare le difficoltà, ma deve individuare e sviluppare le potenzialità.

Rispetto al contesto storico-sociale i processi di integrazione sono nati in Italia con lo smantellamento delle scuole speciali e delle classi differenziali, in Belgio nel mantenimento dell’educazione speciale con l’organizzazione di sistemi scolastici paralleli, in Francia sotto forma di integrazione collettiva e classi speciali integrate (CLIS), in Inghilterra con la trasformazione dei Curriculum e la creazione di un codice di pratica, in Spagna in “centros de integraziòn” e gli adattamenti dei curriculum.

 

Conclusioni

 

L’introduzione di modelli ecologico-comportamentali ha avviato un processo che non è ancora concluso e, nello stesso tempo, permette di verificare i problemi insiti nello stesso processo di integrazione. Soresi individua anche il pericolo di un regressione.

«La lotta contro l’istituzionalizzazione e l’emarginazione non può essere ancora data per conclusa: la tentazione di ripristinare modalità obsolete di trattamento, forme di re-istituzionalizzazione, o visioni paternalistiche e pietistiche è ancora molto presente anche, purtroppo, tra i “professionisti” della riabilitazione e dell’educazione. Lo testimonia anche l’assenza di un accordo generalizzato sulle espressioni da utilizzare nella descrizione di persone e di situazioni necessitanti di aiuto, con conseguenze di non secondaria rilevanza anche riguardo all’opportunità o meno di erogare servizi e supporti» .

Regressione che mette in evidenza come l’integrazione presupponga adeguate politiche educative e sociali orientate a realizzare in modo efficace l’uguaglianza educativa adeguando i curricoli e i criteri d’insegnamento ai bisogni individuali dei singoli alunni nel rispetto della personalità di ciascuno, oltre dunque la logica di perseguire una indiscriminata identità degli scopi e dei risultati didattici.

 

Se a livello teorico e legislativo è evidente lo sforzo di superamento dell’handicap, nella pratica di tutti i giorni si rilevano difficoltà dovute in particolare a situazioni di “protagonismo” del disabile che ostacolano l’integrazione scolastica nello stesso modo delle situazioni di emarginazione. Un’attenzione esclusiva così come atteggiamenti di protezione eccessivi possono provocare risultati opposti a quelli desiderati. La sfida dell’integrazione si gioca sul superamento del modello iperprotettivo e asfittico e sulla costruzione di relazioni di supporto, di accoglienza tese al recupero dell’autonomia. Un campo in cui l’istituzione scolastica, confermando il proprio ruolo formativo e di sostegno, va costruendo anche una sua più definita identità.

 

Francesca Rennis


Bibliografia

 

- Andrea Canevaro, Pedagogia speciale. La riduzione dell’handicap, Milano, B. Mondadori, 1999

- Lucia De Anna, Evoluzione storico-pedagogico-legislativo, in http:// w2.uniroma3.it.html

- F. Frabboni, F. Pinto Minerva (a cura di), La scuola materna e le sue infanzie, Milano, Ethel, 1992

- Claudio Imprudente, E se gli indiani fossero normali?, Bologna, Cappelli, 1992

- Salvatore Nocera, Il diritto all’integrazione nella scuola dell’autonomia, Trento, Erickson, 2001

- Salvatore Soresi, Psicologia dell’handicap e della riabilitazione, Bologna, Il Mulino, 1998

 

Atti e riviste

 

- Enzo Magazzini, La Mediazione Pedagogica (rivista on line), anno 2°, n. 1, febbraio 2001, Edizioni Liber Liber

- Diamo corso all’integrazione, Atti del convegno CDH, 1997, Macerata