Dallo sguardo di Anna, la scrittura come rovesciamento di poteri asimmetrici

Presentazione al libro di Anna Macrì "Malamore. Quando il male macchia il ventre delle donne", pubblicato da UmbertoSoletti Editore

Prima o poi avrei dovuto incrociarmi con il suo sguardo e trovare in esso anche la mia direzione. Gli occhi con cui Anna osserva sono quelli, senza filtro, della verità. Al dolore cerchiamo sempre una qualche mediazione. Un’attrice lo rappresenta nella sua essenza, vivo, pulsante come l’anima che è stata tradita dalla violenza. Lunghe telefonate alla ricerca di un filo logico del discorso, ma la violenza non appartiene all’orizzonte della logica e ora la mano che mi fa scorrere lungo questo foglio bianco è l’empatia. Ad essa ho abbandonato il compito di avvicinare alla lettura e alla comprensione di questo testo. L’empatia, d’altra parte, è il vero filo conduttore di queste storie allucinanti. Quell’empatia che ti scorre nelle vene quando incontri tua sorella e a pelle percepisci quello che per lei significano le parole. Sentimenti ed emozioni che creano una relazione profonda, da sorelle che hanno condiviso l’esperienza drammatica della violenza, delle tante violenze che ogni giorno la donna deve subire. Per questo ogni violenza che colpisce una donna è come se le colpisse tutte. Quell’empatia è anche rispecchiamento di sé e di altre donne, quelle rappresentate, quelle che leggono e che ritroveranno nelle pagine di Anna verità inascoltate. Sordo il dolore che si esprime nella sua essenza più profonda, cruda, priva di scrupoli. Non si può edulcorare il dolore. È quello, drammaticamente. Ho chiesto ad Anna il perché di questa scelta. È una scelta di campo. Se decidi che il dolore deve essere il protagonista incondizionato, non si può velare, ma deve emergere senza giustificazioni di fondo; deve poter esprimere l’asimmetria di potere, il dominio esercitato sulla donna da un sistema malato che la riduce ad oggetto e vittima. Anche se poi ogni donna troverà il proprio canale di sfogo, sublimazione o razionalizzazione, la gratuità del male che si sprigiona nella violenza si traduce in banalità del male, irrazionale, incomprensibile. Quell’attimo, diventa “l’attimo” della propria vita di fronte al quale evapora come in un incantesimo la propria storia, la propria identità. La violenza che genera orrore dovrebbe almeno trovare una risposta nella giustizia. Neppure quella riesce a ricomporre l’infranto. La giustizia si esaurisce in un “senza giustizia”, la vittima rimarrà tale per sempre. Sbiadito ogni legame con il passato e con se stessa cosa rimarrà alla donna? Il lento portarsi avanti di sogni rubati, aspettative negate, speranze tradite, che attendono di essere ricomposte.

 

Ed ecco il titolo, la congiunzione di due termini opposti anche nell’immaginario collettivo. L’amore non è mai malefico, non potrebbe, per struttura semantica, tradursi nel suo contrario. E così il “malamore” è l’ossimoro che rappresenta dolore e svuotamento di ogni alternativa. 

La violenza produce linguisticamente un ossimoro, che nell’esistenza si traduce in dolore, rassegnazione e, finanche, colpevolezza. La contraddizione irrisolvibile come un enigma a più incognite. L’amore diventa il suo contrario “Malamore”, una condizione dell’essere, non semplicemente una qualifica dell’amore.

 

 

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Anna racconta storie. Immergendoci nella sua lettura ci chiediamo se davvero possa esistere una tale vergogna, oggi che questo termine è stato stralciato dal vocabolario dei sentimenti. Vergogna da parte del carnefice che freddamente bracca la sua preda, divenuta oggetto di desiderio, vittima di inganni. Isolata dal mondo intero, che si staglia come sfondo di indifferenza e impassibilità. Una tragedia nella tragedia quotidiana, quella di dover affrontare il mostro da sola.

 

«Ci si abitua a tutto – dirà Rita - ed ho scoperto che l’ipocrisia del mondo rende più facile la mia sopravvivenza e il perpetrarsi del crimine».

 

Il trauma della violenza non è mai isolato, si esprime in un poliedrico gioco di tinte diverse nel sociale. Ne diventa l’espressione più rumorosa, di fronte alla quale dobbiamo avvertire il fastidio, per poter cambiare un sistema costruito su impalcature di potere asimmetrico, ai cui confini viene relegata la donna. La ritroviamo braccata in un angolo anche laddove l’emarginazione è vissuta da gruppi sociali e subculture. Insomma, sempre ancora ai margini dei margini sociali, subisce. Ma anche il dolore più sordo riesce ad esplodere in questo testo con tutta la sua carica di accuse rovesciando la relazione di potere nel suo contrario.

 

«Aspetto le parole di dissuasione, di velata minaccia, dolci come un veleno che mi corroderà l’anima. E arrivano, eccole, mi sommergono come un fiume in piena, come la merda che mi ha lasciato dentro quel bastardo. Lo vedo aleggiare su di noi con quel sorriso sbilenco, “te l’avevo detto amor mio!”… Sì, me lo avevi detto amor mio… Non li ascolto, non voglio ascoltare, mi sozzano peggio della violenza subita. Non posso subire questo insulto, non voglio. Serpenti, serpenti velenosi che mi avvolgono nelle spire malefiche delle loro melliflue parole. Parlano, parlano, mi mostrano la vergogna sbandierata, il sospetto della gente, l’ingiuria del giudizio, il marchio sulla pelle, il turbamento di mio figlio. Sono immobile nel mio tormento con il cuore in tumulto».

 

A parlare è Marta, ma con lei tutte le donne che si sentono strette entro ruoli che non appartengono loro, che ripudiano consuetudini e tradizioni conclamate, che si ribellano ad un marchio e ad una condizione  di umiliazione e subalternità.

 

La ribellione personale verso pregiudizi e scontate condanne si ribalta in un affresco che ricorda quello più noto di Giuditta che decapita Oloferne di Artemisia Gentileschi. La parola come il pennello diventano armi di rivincita. Il poetico sublima il dolore.

Rosina, Cristina, Rita, Marta, Francesca, Sabrina, Manuela, Rossella, Federica, Giovanna  non sono più donne,  sono grida. Ognuna di loro è come una candela che arde di dolore. Quelli di Anna non sono racconti e neppure autonarrazioni. È carne sanguinante di spasimi che si fa inchiostro per  testimoniare abusi di mariti, amanti, padri. La violenza sulle donne assume le sembianze di un fantasma che trascina nella notte della vita la sua catena. Il segno è indelebile. Qualcuno lo chiama ancora “amore malato”, che diversamente dall’ossimoro sostantivato “malamore”, è assurdo perché giustifica una disumanità presente in una relazione dove è sparita, ma forse non c’è neppure mai stata, l’empatia, il riconoscimento, il rispetto dell’altro. Non appartiene all’essere un amore “malato”, ma solo ad un immaginario che falsifica la realtà, offrendone in cambio pregiudizi e stereotipi, come quello che la gelosia possa appartenere alla dimensione dell’amore e, dunque, offrire il fianco ad una considerazione accettabile della violenza come atto punitivo, non malvagio, che rientrerebbe in una forma di giustizia “casalinga”. Il “malamore” focalizza l’annientamento dell’altro, diverso per genere; s’iscrive nel solco del femminicidio come distruzione fisica e psicologica di colei che non vorrebbe ricoprire il ruolo di vittima, perché donna. La diversità, che è un valore imprescindibile nelle relazioni umane, viene negata con la violenza gratuita, irrazionale, per affermare una soggettività autoreferenziale, che si può decifrare, questa sì, come malata, espressione di analfabetismo emotivo, sintomo di relazioni famigliari distorte, patogene, disfunzionali. Relazioni dove, appunto, non si può parlare di amore. L’amore è tutt’altro. Accompagnamento, empatia, compassione e condivisione.

 

Quella di Anna è una denuncia ferrea, che non lascia adito a scusanti, perché ci fa calare nell’orrore, nello strazio delle vittime, e che c’interroga sul tipo di società in cui viviamo. C’interroga su quelle eterne domande che sorgono di fronte al dolore dell’innocente. Da dove proviene il male? Come si diventa carnefice? La nostra identità umana si disegna su queste domande dall’accento ancestrale eppure da contestualizzare anche al presente. Un presente in cui predomina l’ideologia consumistica, la carne umana diventa merce e profitto e l’ambiente ricettacolo di interessi mafiosi. L’arroganza si autoproduce come stile di vita chiedendo alle donne di tornare ad essere dominate, assoggettate al potere coniugato ancora al maschile e anche la creatività si massifica per diventare industria.  Da questa pozzanghera di visioni omologanti e repressive si erge il grido coreutico di Anna, il femminile che cerca meandri di espressività incontaminata perché dal grido emerga ancora, una volta asciugate le lacrime, il sorriso della vita, la bellezza. E come non intravedere nelle donne di questa straordinaria rappresentazione scolpita nel pathos se non la bellezza, nella sua sofferente purezza? In questo possiamo cogliere il senso poietico del testo. Il male può asfissiare solo per poco quanto di più originario la donna porta con sé come forza interiore, desiderio di amore limpido e di cura, ma anche di intrepido bisogno di essere se stessa.

 

«Non sono nata per essere vittima sacrificale – fa dire a Cristina - ma non posso combattere senza fare a brani la mia anima, ve la dono, la immolo all’impietosa vita che mi volle donna, troppo bella per non essere sfregiata, troppo ansiosa di vivere per non essere rallentata spezzandole le gambe, troppo piena per non essere svuotata… mai doma, una viandante ricoperta di cenci che porta con sé i chiodi strappati dalla propria carne, che aspetta paziente di conficcarli nella vostra».

 

 

La rabbia non è che una faccia di questo delirio provocato dall’abbruttimento della violenza in cui la donna perde la propria autostima fino a scagionare il colpevole; girando la medaglia possiamo vedere brillare il mistero del femmineo. Una sorta di vivisezione artistica, quella immortalata anche da tante opere d’arte che mette a crudo l’altra parte di sé, quella non corporea in cui il corpo della donna afferra, come araba fenice che ricompone le proprie ceneri in una nuova forma, il simbolico segreto della vita.

 

Francesca Rennis