Un’identità al limite, da emigrata-immigrata

F. Bacon, Ritratto
F. Bacon, Ritratto

Come se fosse una voce lontana nel vento, un’eco che non sa e non vuole estinguersi, si ripresenta imperturbabile una domanda, quella domanda che senza mezzi termini ti chiede “Chi sei?”. L’identità è un processo segnato dall’incrocio tra strade che correndo parallele magicamente si incontrano. Solo nell’incontro con l’altro puoi ritornare sui passi fatti, ripensare il tragitto percorso e cercare nuovi equilibri.

“Chi sei?” si diverte ad apparire come quando incontrai Assunta. Una porta che puzzava di stantio in fondo alla mia coscienza e che forse avrei voluto mantenere chiusa, stava per aprirsi con quel dolore, sordo e irrispettoso, che una volta superato si sarebbe trasformato in fantasma lasciandomi solo una ferma convinzione. Conoscevo Assunta da oltre vent’anni come vicina di casa, ma solo l’interesse comune verso il giornalismo ha fatto incrociare in modo, almeno per me significativo, le nostre vite. Si, perché Assunta si occupa da oltre dieci anni di comunità calabresi all’estero e rendendomi partecipe della sua esperienza ha posto davanti ai miei piedi quella pietra d’intralcio che faticosamente avrei dovuto rimuovere. Inevitabilmente ho dovuto ripensare la mia storia di bambina, nata a Roma da genitori calabresi emigrati, vissuta in un clan di parenti e amici, tutti rigorosamente calabresi. Ho dovuto rivedermi a scuola, presa di mira dai compagni per un “per” troppo aperto, o a casa con mia madre che tentava di farmi pronunciare un difficilissimo “quattru” dialettale dove la “t” si dileguava in un soffio. L’incontro con Assunta ed alcune esperienze concomitanti mi hanno restituito un quadro raccapricciante della mia identità. Non romana, né calabrese, il mio essere fluttua da allora in una liminalità che è divenuta la mia solida dimora. Una dimora fluida, costruita a fatica, su un luogo incerto che non è più quello della tradizione. Nascosto vi è il segreto della mia flessione linguistica. Priva di un dialetto non ho potuto riconoscermi in un gruppo, ma proprio per questo, superata la sofferenza della verità, ho potuto sentirmi cittadina di un mondo dove non esistono steccati ideologici o pregiudizi. Come in uno specchio l’immagine rarefatta del mio io stava finalmente prendendo sembianze più chiare.

 

 

Francesca Rennis