In dialogo con i detenuti verso la reintegrazione sociale e lavorativa

Il silenzio in carcere assume i toni della rassegnazione e del fatalismo, della tristezza e del rancore, della rabbia e dell’attesa spasmodica. Toni che diventano sempre più cupi di fronte al disinteresse delle istituzioni e del territorio, alle lentezze burocratiche e all’indifferenza diffusa. Un vuoto che l’istituzione carceraria tenta di colmare senza riuscirvi pienamente come dimostrano i tanti suicidi e i tanti episodi di violenza e autodistruzione in carcere. Chi è ristretto per un reato, al di là della garanzia alla sicurezza della pena che la società civile si attende dalla detenzione, ha comunque il diritto a vivere, a recuperare quella parte di vitalità che, non intaccata dal reato, può invece rappresentare una risorsa per la società.

In quegli anni in cui mi sono avvicinata come volontaria alla situazione carceraria con il progetto “In prospettiva” era forte la tensione nel far comprendere da parte dei detenuti al mondo esterno quanto fosse importante il dialogo per abbattere quelle barriere del pregiudizio che pongono il bene e il male sempre e solo da una parte. Svolgere attività nel carcere, attraverso la vicinanza di associazioni, è indispensabile per avviare un processo di re-integrazione sociale ed economica, promuovendo un ritorno o un nuovo inserimento nella normalità. Si cerca di farsi spazio nella ristrettezza tra una domandina e l’altra, tra tempi istituzionalizzati e formalità per raggiungere come un eco altri spazi, quelli della solidarietà e delle istituzioni. Occorre vincere i tanti recinti della solitudine e dei silenzi, creare reti di solidarietà, sinergie tra i vari enti preposti al controllo e alla prevenzione, per evitare la reiterazione del reato, che è la più frequente delle condizioni in cui si trova un detenuto e quindi limitare il più possibile reati che intaccano la vita sociale ed economica. In carcere vivono persone che vengono additate per il male procurato, ma che nascondono creatività, pensieri positivi, attitudini, qualità morali e di profonda umanità che aprono alla speranza e che giustificano ampiamente quella dignità che appartiene al genere umano solo per il fatto di esistere.

 

Francesca Rennis

28 gennaio 2011