Laddove è possibile rintracciare l’indefinibile dell’umanità

di Francesca Rennis


Recensione al libro di Lucio Saviani

Voci di confine. Il limite e la scrittura

Moretti & Vitali, 2010

 

 

 

Confini che si aprono a nuovi confini in un continuum di rimandi contestuali tra interno ed esterno, dentro e fuori, recependo i limiti culturali dell’occidente e, insieme, le sue risorse intellettive, nelle sue stesse ambiguità linguistiche. Una certa visione dell’occidente globalizzato lo riduce, sulla scia aperta da Heidegger, a predominanza della tecnica e del profitto, ad una impossibilità ad uscire da quel ripiegamento su se stesso che ne avrebbe bloccato ulteriori sviluppi. Il testo di Lucio Saviani apre, invece, su nuovi spazi avendo come punto di riferimento quella fusione d’orizzonti di gadameriana memoria dalla quale la verità si disvela come esperienza aperta e progressiva. Nella fusione di orizzonti, mutevole e mai compiuta, avviene il miracolo del contatto e integrazione tra le persone, ed è qui che è ancora possibile la con-divisione del futuro del mondo. La ricerca è tra i fondali etimologici, in quel luogo-non luogo originario della coscienza.

S’avverte la tensione fra capitolo e capitolo, pagina dopo pagina ed esplode qua e là facendoci cogliere quella domanda a p. 69 «Come interpretare l’altro se l’io è straniero a se stesso?» come filo rosso di un percorso tutt’altro che lineare perché rispecchia le dinamiche articolate, difformi, istrioniche, del pensiero. L’ermeneutica ha i suoi tempi in quanto legata ad un dialogo con se stessi e con il sé umano. Cogliere le strutture ontologiche del com-prendere, il suo procedere a scacchi in quello che Lucio Saviani stesso chiama “tracce di saggi”, una sorta di “quaderno degli esercizi”, produce in chi legge suggestioni e incipit nuovi. A scacchi: saltando a “elle”, talvolta avvitandosi su se stesso o, meglio, tornando indietro in quella ricerca etimologica della parola che nella storia si trasforma traslando in significati nuovi. A scacchi. Verso il metafisico confinato nel tratto della scrittura, laddove s’insinua l’indefinibile, l’eredità concettuale e immaginativa. Dove nasce il mito e la metafora, ma anche oggetti pregnanti di senso. I rimandi etimologici, pur nella loro finitezza, sono infiniti; raccolgono significati e percezioni, si proiettano al di là di un oltre che è il nostro presente. Un viaggio in compagnia di Ermes per recuperare il senso dell’esistenza e le trame e gli orditi che incrociano l’anthropos, ciò che lo differenzia nel suo “essere umano”. Ne avvertiamo anche la drammaticità come nel parto del sapere di Socrate. Emergere dal caos dei paradossi creati dal pensiero ionico e dalla sua evoluzione vorrebbe dire riproporre un cosmos di relazioni e concetti maggiormente inclusivi.

Entrare nelle profondità di quegli intrecci vorticosi alle origini della contemporaneità vuol dire uscire, in questo continuo rimando tra dentro e fuori, dal “mediterraneo”, superando il limite del concetto. “Officina per fabbricare civiltà” come ci ricorda lo stesso Saviani in un altro contesto citando Pau Valéry, «prima ancora di definire un territorio o un 'continente liquido' il Mediterraneo porta nelle sue tante carte le tracce di sempre nuove traversate dell'immaginario. Luogo della fragilità dei confini, nel Mediterraneo è tangibile un senso del limite, in cui ogni cosa può sparire da un momento all'altro o 'passare' ad altro»[1].

Il Mediterraneo, laddove è nato, formato e articolato il logos fino alla negazione di se stesso con il nichilismo, scopre nel naufragio dell’Ulisse contemporaneo le proprie isole e i propri approdi.

Ed ecco il senso del titolo: Voci di confine sono le voci che riescono ad emergere tra le pieghe della tecnica, del conformismo o del dominio, laddove i filosofi della Scuola di Francoforte leggevano quelle strutture della realtà vincolanti e reificanti al punto da non poter produrre alcunché se non cecità (Horkheimer-Adorno, Dialettica dell’illuminismo), ma anche della scrittura. Nella scrittura, infatti, e attraverso la scrittura si ripresenta quella complessità di significati e interpretazioni che è stata già rintracciata dalle ricerche della scuola di Tubinga, suscitata dalla cosiddetta VII lettera, nel rapporto tra i dialoghi e le testimonianze sul pensiero platonico e le dottrine non scritte (àgrapha dògmata) dello stesso Platone[2].

Nella parola che incarna una conquista concettuale e "definisce" ciò che è mondo, persistono, comunque, aperture, spazi senza nome, identità non rivelate, zone d'ombra nel pensiero come nella realtà che, nel momento in cui assumono un nome, riescono ad essere definiti, producono altri percorsi conoscitivi ed emotivi spingendo il limite oltre altre soglie. In questi spazi “non conformi”, laddove si rimane colpiti dalla vicinanza al “fuoco del cielo”, che Hölderlin scorse nei Greci, si fa largo la luce del pensiero. «Di volta in volta, il pensiero riesce a far luce su quanto in quest’ombra si nascondeva svelando, poi, cose già conosciute; ma mai riesce a individuare ciò che dà origine all’ombra. Senza farsene una “ragione”. In effetti, è la luce del pensiero a fare apparire l’ombra paurosa del pensiero stesso (e delle sue origini). Il mondo delle ombre è il regno della paura e la paura, come rilevava Heidegger, è un aspetto della meraviglia, o meglio, nella paura c’è un tratto di sorpresa, di vacillamento e dirottamento dagli equilibri abituali, da cui muove una reazione meravigliata»[3]. E’ questo un tratto antropologico di forte pregnanza conoscitiva che esula da aspetti logico-deduttivi così come dall’intuizione intellettuale di kantiana memoria per recuperare un senso di appartenenza alla comunità degli uomini che ci rende prossimi all’essenza delle cose e alla stessa essenza umana. In questa dimensione si disvela l’abitare dell’uomo in senso poetico, la prossimità al divino che si dona nel misurare/disporre e che pure non si identifica con questo o quel misurare o disporre[4]. Il testo di Saviani s’inserisce in quest’ottica di ricerca di senso dell’esistenza nel tentativo di afferrare i legami che s’intrecciano anche in contraddittori chiasmi tra piano ontologico e quello linguistico. Il paragrafo “Le linee dell’orizzonte” (p. 75) avverte in modo più sintetico che in altri questa esigenza allorché fa riferimento all’”ordine creato” da Dedalo: il labirinto per antonomasia, edificio con una struttura volutamente caotica tale da impedire l’uscita al Minotauro, ricco di simbolismi sia nella storia raccontata dal mito che negli ideogramma con cui è stato rappresentato. La parola scritta e l’indescrivibile. Li ritroviamo accorpati eppure dis-giunti nelle crepe, tagli e fenditure, specchi e trasparenze consapevoli che il linguaggio permane come forma essenziale dell’esistenza umana in cui si radicano il “vederci chiaro” e la contemplazione[5]. L’anthropos e il logos si annidano in questi luoghi-non luoghi del sapere, laddove è possibile rintracciare l’indefinibile dell’umanità e riaffiora, prepotente, la domanda «Come interpretare l’altro se l’io è straniero a se stesso?» insieme al volto di un uomo che tende ad oltrepassare i limiti della propria soggettività deforme, plurale, accogliendone le differenze . «Rimane da orientarsi, prima di essere divorati dai propri fantasmi, in quel labirinto che, con un battito di ciglia, ogni sguardo apre e chiude»[6]. Un orientamento possibile solo se rimane al limite del discorso e non sul limite, come Flavio Ermini definisce il lavoro nel saggio che conclude il testo. «Scrivere al limite – osserva – significa confrontarsi col senso dell’impossibile, rappresentare ciò che non può essere rappresentato, l’essere uomo – sottolinea - dell’uomo»[7].



[1] L. Saviani, ANTITERRA MEDITARE MEDITERRANEO, in http://www.pantarei.co.uk/

[2] In questo contesto mi preme rilevare non tanto i contenuti del dibattito intorno alla questione sollevata dalle “àgrapha dògmata, quanto la necessità avvertita nel dibattito stesso di evidenziare quei limiti comunicativi della scrittura rispetto all’oralità, che Platone, secondo una certa storiografia, avrebbe già colto.

[3] L. Saviani, Voci di confine. Il limite e la scrittura, Moretti & Vitali, pp. 50-51

[4] Martin Heidegger, "Costruire abitare pensare" - in "Saggi e discorsi", Mursia, Milano 1976, dove s’interroga sulla poesia di Hölderlin e soprattutto sulla frase «…poeticamente abita l’uomo».

[5] «Il vederci chiaro (l'orao dell'idea e viceversa), suprema aspirazione del pensiero occidentale (dal theorein alla contemplazione), finisce per sovrapporsi e quindi trascolorare nel chiarore, nelle sfumature, nei mezzi toni, nella nebbia e nel pressappoco dei percorsi minimi. Dalla forza della definizione, dalla passione per la descrizione al loro definitivo sfinimento. Di nuovo, senza parole, l'indescrivibile. Il sublime che emerge ora, come intuiva Hofmannsthal, dalle cose insignificanti e mute». (Lucio Saviani, Voci di confine. Il limite e la scrittura, Moretti & Vitali, p. 26)

[6] L. Saviani, Voci di confine, op. cit., p. 69

[7] L. Saviani, Voci di confine, op. cit., p. 107