Quando l'arte diventa catarsi. L'esempio di Paf

Recensione di Francesca Rennis

La creatività ha un valore catartico, sa innestarsi nel dolore e nella vita trasformandola. I lavori di Francesca Paciello ne sono un esempio. Sanno raccontare, anche urlare angoscia e sofferenza, liberandole in forme che accompagnano l’immaginazione a elaborarle fino alla metabolizzazione. Pablo Picasso affermava qualcosa di vero nel dire che «La pittura è una professione da cieco: uno non dipinge ciò che vede, ma ciò che sente, ciò che dice a se stesso riguardo a ciò che ha visto». E quello di Francesca Paciello, o Paf come si fa simpaticamente chiamare, è il tentativo di un’espressione di autonomia e carica interiore tale da volersi riappropriare in modo consapevole della propria libertà di pensare, di agire, di percepire, anche di soffrire. Il destino di ogni donna si racchiude in questo tentativo mai incoraggiato dal sistema sociale delle nostre civiltà. Proiettarsi nella tela con le proprie dinamicità, con passione e energia che riportano ad una maternità e cura cui forse dovremmo riferirci più spesso per uscire dalla boutade del momento storico.

La pittura riesce a riconsegnarci magicamente il mondo esterno mediato dalle vicissitudini del proprio io. Un miracolo o una magia, come la definì Picasso stesso, non tanto un’operazione estetica. “L’arte mi rasserena” afferma l’artista napoletana che interagisce con un substrato di dolore inconciliabile, come se fosse il sottofondo musicale alle sue energiche pennellate. E così apprendo quali sono i suoi artisti di riferimento. Gli espressionisti che «esprimono – ricorda - emozioni dall’anima direttamente nella realtà, senza mediazioni». Autori che hanno avuto a che fare con la sofferenza. Da Edvard Munch, a Vincent van Gogh , a Egon Sciele, Henri Matisse, Frida Kahlo.

Molte delle sue opere possono essere catalogate in due sezioni: il Femmineo ed Evocativi-simbolici. Tra i primi troviamo l’impronta, una sagoma, un ombra, la presenza di spalle di una figura femminile. «La donna – spiega – che dà le spalle al male ed è anche palese che guardando avanti verso l’orizzonte cresce e lascia dietro di sé ciò che non c’è più». Nel suo affollato atelier, tra acrilici, quadri e cavalletti con la musica che invade l’atmosfera eterea della fantasia, prendono forma le sue emozioni con un desiderio irruente che giungano dirette al cuore dell’osservatore. Dopo aver partecipato a vari concorsi, mostre ed estemporanee pittoriche lamenta «di non avere più stimoli a parteciparvi da alcuni anni. L’arte – conclude – è diventata un business».

Dell’altra sezione quello che si evidenzia è il ricorrere a simboli anche naturali per indicarci un’alienazione, un disagio sociale, schemi di vita e poteri che inducono dolore. “Inciucio”, “Mare in tempesta”, “L’astruso”, “Il dolore”, “The end”, “Confusione”, “Il cobra”, prodotto dopo l’incontro dei G8 e di forte impatto simbolico. Ma per questa pittrice che predilige colori forti e intensi la speranza è anche possibile; riappare qua e là dalla “Trasparenza” ad esortare “Il risveglio”, “La natura in movimento”, un “Al di là delle rocce”, la visione di “C’è una luce”.

Il percorso nella sua immediatezza scopre una chiave di lettura così come sintetizza una frase di George Santayana, cui l’artista fa riferimento per spiegare il suo lavoro “Confusione”. «Il caos è un nome per ogni ordine che causa confusione nelle nostre menti ». Un disordine che rimane tale finché non è ricomposto nella sua logicità, ma l’arte, si sa, coglie anche l’indicibile, lo sfuggevole, ciò che non può essere imbracato in confortanti linee di pensiero e rimane là ad indicarci che l’uomo abita anche l’indefinito.