Le quattro giornate di Catanzaro, tra ansia di riforme e repressione

Alessandro De Virgilio, nel suo libro “Le quattro giornate di Catanzaro: 25-28 gennaio 1950 la citta’ in rivolta per il capoluogo”, edito dalla Rubbettino, ci consegna una ricerca meticolosa tra archivi e rassegna stampa storica. L’impianto storicistico ha il pregio di mantenere la complessità del tema pur nella semplicità di linguaggio e linearità delle argomentazioni. Un lavoro che copre quella “gruviera” di buchi storici da colmare di cui parla con cognizione di causa nella sua prefazione Pantaleone Sergi, cui riconosciamo competenze di storico oltre che di cronista attento e puntuale. Alessandro De Virgilio non è da meno. Lo dimostra in questo testo in cui riesce con abilità a mantenere le problematiche relative ai fatti distinte da quelle politiche e sociali e, soprattutto, da quelle relative al racconto quotidiano dei giornali dell’epoca. Più aspetti, diverso il peso ideologico e narrativo che, insieme, ci invitano a ricostruire una consapevolezza identitaria calabrese.

L’autore esamina le cause socio-economiche e politiche della rivolta che, nonostante le testimonianze di ordine e contenutezza, sfociò in un attacco violento della celere. De Virgilio ricostruisce i fatti di quella che venne considerata una vera e propria aggressione, così come vile e oltraggiosa fu definita la decisione della commissione Affari Interni nell’accantonare, in seguito al fermento della cittadinanza di Reggio Calabria, la relazione Donatini-Molinaroli che legittimava nel ruolo di capoluogo Catanzaro, rinviando la decisione al Parlamento. Lo scenario che De Virgilio fa rivivere è quello di una cittadina in fermento, tra i luoghi storici dei teatri Politeama Italia e Masciari. L’autore ricostruisce la genesi della rivalità con Reggio Calabria, argomentando con solide motivazioni quel diritto che “di fatto” la città aveva già conquistato da secoli.
Il contesto in cui prende forma la protesta per il capoluogo ha radici nel dibattito anche aspro tra regionalisti e antiregionalisti che prese vita nel periodo successivo all’unità d’Italia e che si trascinò per tutto il XIX secolo. In Italia esisteva fra i democratici una forte corrente autonomista e federalista risalente a Cattaneo, mentre la destra storica, al potere dopo l’unificazione realizzò un ordinamento fortemente accentrato. Così nel testo di De Virgilio ritroviamo, dopo neppure un secolo, antiregionalisti come il liberale Nitti (p. 112) e Casalinovo che aveva aderito al gruppo parlamentare dei liberali (p. 109), mentre il democristiano Giammarco (p. 113) tra i regionalisti. Questo problema dell’ordinamento ricade come un macigno sulla realtà meridionale perché quella che è stata definita “piemontesizzazione”, ovvero l’ampliamento delle leggi piemontesi al resto d’Italia, non è stato altro che un voler chiudere gli occhi di fronte al problema vitale delle popolazioni calabresi, ovvero quello riferito alla divisione delle terre, così come con acume aveva osservato Vincenzo Padula che l’8 marzo 1865 scriveva: “La vita e la morte della nostra provincia dipendono dal modo in cui sarà risolta la questione silana”. Ogni progetto di decentramento amministrativo fu accantonato soprattutto per la situazione di malessere che si era venuta a creare nel mezzogiorno e che aveva provocato il fenomeno diffuso del brigantaggio. Si avviò una politica di dura repressione mentre rimasero irrisolti i nodi politici e sociali che avevano reso possibile la diffusione del fenomeno. Mancò ai governi della destra, ma poi vedremo anche successivamente, la capacità o la volontà di attuare una politica per il Mezzogiorno capace di ridurre la cause del malcontento.

 

Ostilità verso il nuovo ordine politico imposto con l’unità nazionale e delusione nella mancata risoluzione dei problemi della terra riemergono quindi nella crisi tutta calabrese per la scelta del capoluogo di regione, tanto più che nei cosiddetti anni del centrismo di Alcide De Gasperi, vennero ritirati i decreti Gullo (Antonio Segni Ministro Agricoltura) con i quali si assicurava la continuità del lavoro ai contadini, veniva ridotto lo sfruttamento dei possidenti terrieri e si promuoveva la nascita di alcune cooperative cui sarebbero state assegnate le terre incolte. In questo contesto ci fu una ripresa dei tumulti contro il latifondo che registrarono episodi drammatici anche nella vicina Melissa. L’eccidio nel latifondo di Melissa, avvenuto solo qualche mese prima il 29 ottobre 1949, si ripresenta nel testo con gli interventi politici dei socialisti che tentano in più occasioni di spostare il tema della discussione da quello politico a quello socio-economico del lavoro e della questione fondiaria.
Quello che accadde a Catanzaro nel gennaio 1950 può essere compreso da alcune risposte che diede il governo in quello stesso anno: la riforma agraria e l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno.
La riforma agraria, varata nel maggio-dicembre 1950, fissava norme per l’esproprio e il frazionamento di una parte della grandi proprietà terriere di ampie aree geografiche fra cui anche la Sila e poteva costituire il primo tentativo di profonda modifica dell’assetto fondiario mai attuato fino ad allora. La Cassa per il Mezzogiorno (agosto 1950-1983) aveva lo scopo di promuovere lo sviluppo economico e civile delle regioni meridionali attraverso il finanziamento statale per le infrastrutture e il credito agevolato alle industrie.
Il testo mette in luce questa problematicità che il governo cercò di risolvere successivamente, sempre in quell’anno, quando ricorda, appunto, che i fatti di Catanzaro, alla luce del duro intervento della Celere, vennero paragonati a quelli dell’eccidio di Melissa. Non dobbiamo dimenticare, infatti, il dissenso della destra verso la legge agraria portata e che nel ’50 anche i liberali si ritirarono dal governo in quanto contrari alla riforma agraria, mentre le sinistre continuarono a condurre contro i governi De Gasperi una dura opposizione, in parte fondata su divergenze ideologiche, in parte motivata dallo stato di disagio in cui versavano le classi lavoratrici.
Il quadro degli schieramenti nella lotta per il capoluogo riflette questo stato di cose e, in particolare, riflette il nuovo ordine internazionale della cosiddetta guerra fredda. Le sinistre e la Cgil mobilitarono le masse operaie in una serie di scioperi e manifestazioni che spesso si concludevano in scontri con le forze dell’ordine. A sua volta il governo, deciso a non lasciarsi condizionare dalla piazza, rispose intensificando l’uso dei mezzi repressivi. Le forze di polizia furono potenziate con la creazione dei reparti celeri (ossia gruppi motorizzati di pronto intervento) impiegati esclusivamente nei servizi di ordine pubblico. Le armi da fuoco furono spesso usate contro i manifestanti, provocando non poche vittime. Prefetti e questori cercarono di limitare la libertà di riunione valendosi di leggi e regolamenti varati in epoca fascista. Comunisti e socialisti furono schedati e a volte discriminati negli impieghi pubblici. Il ministro degli Interni Mario Scelba (1947-1955) divenne agli occhi dei militanti di sinistra il simbolo di una politica illiberale e repressiva.

 

Francesca Rennis

 


Presentazione a Belvedere 16 agosto 2014