Tra memoria e presente alla scoperta delle “più belle anime di Scalea”

di Francesca Rennis

Recensione al libro di Franco Galiano

 Le più belle anime di Scalea

Publiepa Edizioni, Cosenza

 

 

La memoria va custodita e non per nutrire nostalgici ed estemporanei bisogni interiori, né per guardare al mondo in termini romantici. Ancor meno per appagare desideri autoreferenziali d’estetico candore. Ha una sua funzione. E’ proiettata al futuro. Non ci sono inganni o trappole nei quali rimanere incastrati leggendo il libro di Franco Galiano “Le più belle anime di Scalea” (Publiepa Edizioni, 2011), perché la bellezza cui fa riferimento il testo è proiettata verso il territorio cui appartengono le storie di personalità che hanno contribuito a creare l’identità della cittadina tirrenica. Il territorio, appunto. Quel patrimonio fisico, sociale e culturale che nel tempo ha trovato una sua sedimentazione particolare e sul quale insistono pressioni economiche finalizzate alla competizione sul mercato globale. E’ un valore che si respira tra una pagina e l’altra. Vero protagonista di una Scalea mortificata dall’incedere del cemento e da una progettualità e gestione del territorio inesistenti. Una povertà che si erge su quanto rimane dal passato segnato nell’urbanistica della città vecchia. Ogni pietra ha un suo significato perché tratteneva la quotidianità vitale di una popolazione.

Sono grata a Galiano per questo libro che fuoriesce dalle retoriche della nostalgia e da una visione di valorizzazione della realtà contemporanea in termini passivi, di apatica rassegnazione, per scegliere come leit motiv la critica e un confronto serrato con la dimensione temporale. La critica in senso sincronico e in quello diacronico-spaziale rivolta al contemporaneo.

 

«La nuova città cresciuta sulle due arterie maggiori è un luogo irreale che si anima per lo più d’estate o nelle pause festive: qui lo spazio fantasma si contamina in un formicaio caotico, in una vitalità degenerata e graffiante che si fa modo di vivere senza essere stile, che pretende tutto senza che nulla sia dovuto o da sudarsi, marea monotona nel suo inferno fosforico d’abitudini e di peccati. Invasa dall’edilizia aggressiva che dalla costa un tempo stupenda e oggi a tratti offesa, si è propagata, in alcuni punti, come una cancrena, dove no è chiaro cosa sia stato abusivo grazie alla complicità di amministratori condiscendenti e cosa invece sia stato costruito con legalità, visto che una certa politica assente, pare essersi piegata in alcune circostanze alle clientele, al voto di scambio, credendo su alcuni abusi e cialtronerie urbanistiche. Una città balneare che nell’utopia degli anni settanta, sotto la sirena dello sviluppo e del guadagno facile, si era aperta, con le sue risorse e i suoi progetti, alle più meravigliose attese, mentre all’oggi, in certe vicende dell’anno, code d’auto nervose, resse estive, stress da parcheggio coatto, cemento canicolare, deposito irritante ed offensivo di rifiuti in punti inopportuni deturpano spazi dilatatisi alla cieca, ingenerando in un corpo per lo più sano, disarmonia, rigetto e non poco fastidio e disagio…. . ma Scalea (vogliamo con fermezza scongiurarlo!) non può diventare una città da prendere in prestito per una sola vacanza o per una sole estate o per una sola notte oppure per un evento sebbene importante e che, delusi, in qualsiasi momento sia da sostituire o da ripudiare, ma che piuttosto divenga una compagna fedele per più lunghe permanenze e migliori destini, da associare ad uno sforzo intelligente e comune e non ad una furbizia personale, corta ed asfittica nell’arte di arrangiarsi…». Una bella pagina in cui si può apprezzare l’uso linguistico della parola in uno stile decadente di grande effetto comunicativo. Indiscutibile l’amore che l’Autore trasmette anche attraverso parole dure. Il legame con il proprio sé bambino, la sua crescita umana, culturale, professionale tra i luoghi sono componenti della propria identità calabrese e scaleota.

 

Gli elementi storici e cronologici utilizzati in modo preciso lasciano comunque spazio ad una forma che riesce ad esprimere la concezione intima e interiore dell’Autore, orientato a valorizzare il particolare e il quotidiano e al recupero di potenzialità non anacronistiche. Da queste contaminazioni tra presente e passato, esigenze personali di ricerca e di valorizzazione della realtà, si deduce la forte tensione morale presente in questo contributo originale di lettura dell’identità calabrese, fortemente ancorata a quella cultura contadina che l’Autore privilegia perché portatrice di valori intramontabili. Galiano c’introduce ai luoghi prendendoci per mano, indicando non solo le caratteristiche urbanistiche, ma anche gli aspetti antropologici che li hanno resi parte della vita sociale e collettiva. Il racconto si dispiega in tre capitoli con una prefazione di Antonello Grosso la Valle, presidente del Consorzio Pro Loco “Riviera dei Cedri” Alto Tirreno Cosentino che suggerisce per la Riviera l’avvio di «un processo di bottom-up (dal basso verso l’alto) che sappia coniugare il ricco patrimonio territoriale, la cultura popolare e le risorse umane autoctone con le opportunità globali, nella prospettiva fiduciosa di uno sviluppo endogeno e di una crescita all’insegna del dialogo e della integrazione pacifica delle differenze oramai presenti anche in ogni più lontana periferia».

 

Una prosa arricchita da alcune poesie con le quali l’Autore pone in risalto alcune tra le presenze più significative. Da Metastasio a Oreste Dito e Attilio Pepe, al fiume Lao, amorevolmente chiamato “Padre Lao”. Ma i personaggi ricordati sono tanti. Francesco Spinelli che cadde combattendo contro i Turchi e il giacobino Giovanni Lanzillotta fucilato dal comandante francese Breahff; le famiglie cittadine che governavano la città e che «purtroppo andarono a degenerare in quel gattopardesco partito di galantuomini e di farabutti, operante e resistente sotto mimetiche spoglie, anche nei nostri giorni». Un’attenzione particolare viene data a Ruggiero Loria “espada envencible del Vespro” e a Palazzo Spinelli, protagonista di varie vicende tra cui la proclamazione della repubblica contro la tirannide borbonica. Dai vicoli, dalle piazze dove passavano con i loro carichi muli e cavalli, dalla scalinata legata ad una tradizione della Candelora, dai monumenti ad una panoramica su Scalea che poeticamente ne abbraccia i paradossi. «Scalea mistica e lasciva, francescana e redenta, eroica e mercantile, … dei sussurri e dei veleni, casta e lussuriosa, delle sante e delle traviate, degli spavaldi e dei ruffiani, degli anelli e dei pugnali, dei tatuaggi e della marijuana, … scostumata e strafottente, mascalzona e riverente, della grazie e del peccato. … Scalea della scacchiera bianca e nera, degli scacchi e degli smacchi, avara e penitente…».

L’anima “bella” di Scalea si esprime in una storia fatta anche di indugi, violenze, sotterfugi politici, ma emerge soprattutto in quell’incedere del tempo tra i bracieri e le difficoltà della vita dei contadini e della gente umile che con il proprio incessante lavoro ha continuato a tramandarsi valori e sentimenti di paziente e strenua resistenza alle avversità.