La tolleranza, un fiore della memoria storica

450 anni fa la strage dei Valdesi. Un monito per il futuro

Il velo della storia squarciato senza rimpianti da una sequenza di immagini sui tragici eventi dell’allora Gàrdia, custoditi fino ad oggi nei racconti verbali tramandati da una generazione all’altra insieme ad usi e costumi capaci di mantenere ancora viva l’identità occitana in una località che solo dal 1863 si chiama Guardia Piemontese.

La trasposizione dei fatti cruenti avvenuti al tempo del feudatario Salvatore Spinelli e della feroce persecuzione subita dai Valdesi ospitati nelle proprie terre dall’epoca di Zanino del Poggio, è stata riportata su una pellicola conquistata per gioco, con la semplicità e forse anche con la caparbietà di una regia in erba. La memoria storica, le cui fonti sono riportate anche in alcuni testi monografici del 1591, 1644 e 1862[1], viene così consegnata all’immagine nel cortometraggio “Noi nudi. Nudum Christum sequentes” di Rocco Mazzone che ottenne, tra l’altro, un riconoscimento speciale nel corso della prima edizione della rassegna cinematografica ideata e diretta da Matilde Tortora “Il fiore di ogni dove” presentata dal Laboratorio “Giovanni Losardo” a Cetraro dal 13 al 16 dicembre 2005.

Il filmato, prodotto dall’amministrazione di Guardia Piemontese, ha come protagonisti gli studenti dell’Istituto comprensivo locale che, improvvisandosi attori, hanno affidato le emozioni, le angosce e l’atmosfera di quei tempi “bui” alla ragione di oggi in una visione dai toni realistici che fonda le caratteristiche di documentario a quelle della fiction.

Le finalità del filmato sono funzionali ad una più ampia ricerca della propria identità alla luce di un nuovo ethos fondato sulla tolleranza di posizioni diverse. Così la tutela delle proprie specificità linguistiche e culturali non si rivela fine a se stessa in eventi persi nel tempo, ma diventa risorsa di adattamento alle nuove frontiere aperte dalla globalizzazione mediatica e dei mercati.

Guardia Piemontese si è estesa dal centro storico, a 514 metri all’ombra di Monte Nicolino, come centro turistico e termale nella zona balneare a ridosso di quel faraglione, la Pèirë da Garroc ovvero lo Scoglio della Regina, divenuto un punto di riferimento per coloro che tra le due guerre furono costretti, proprio come la prima comunità, a cercare il pane altrove. L’altrove di una Calabria come terra promessa o l’altrove del miracolo americano diventano a Guardia Piemontese allegoria dell’incessante nomadismo della condizione umana. E proprio “l’altrove” ritorna nel filmato come nella rassegna iniziata con un messaggio di apprezzamento da parte del regista Mario Monicelli che, tra l’altro, ha apostrofato: «Non conoscere la cultura degli altri ci taglia fuori dal mondo e niente come il cinema riesce davvero a trasmettere l’altrove, coinvolgendoci tanto compiutamente, anche perché l’altrove è oggi così tanto in mezzo a noi, è parte di noi». L’altrove, dunque, metafora di un luogo-non luogo dell’anima verso il quale muoversi per riconoscere come in uno specchio la propria diversità e cogliere quel fiore di bellezza non più rintracciabile nell’omologo, nel continuum di una cultura asfissiata dal consumismo e dalla dispersione dei valori.

Il recupero della coscienza storica presenta, invece, la fecondità del dialogo nel rispetto delle reciproche diversità, senza il quale creatività e pensiero divergente verrebbero schiacciati, proprio come i primi coloni valdesi. Il diverso, l’altro, non è più l’estraneo che si rivela sotto le sembianze dell’oscurità, ma diventa parte di un sé da accogliere contro ogni tentativo di prevaricazione e arroganza. Così la cittadina occitana diviene oggetto di un trascendere la storia drammatica dei suoi fondatori incominciando proprio dal recupero di quei fatti tragici, culminati con gli episodi delittuosi dell’11 giugno 1561. Una notte tra ferro e fuoco, segnalata dallo storico Salvatore Caponetto come la “San Bartolomeo italiana”, infissa come chiodo nei cuori delle generazioni successive e nelle menti di coloro che passano dalla cosiddetta “Porta del sangue”, quel passaggio obbligato a sud dal quale, si racconta, la notte del massacro il sangue fluì a fiotti dal castello fino al mare.

Una serie di documenti in lingua d’oc, fedelmente tradotti nel filmato e appartenenti ad un carteggio del ‘500, testimoniano il martirio del giovane predicatore Gian Luigi Pascale da Cuneo, avvenuto a Castel Sant’Angelo il 16 settembre 1560, dopo un lungo arresto iniziato a Fuscaldo il 2 maggio dell’anno precedente, e una barbarica persecuzione voluta dall’inquisizione ecclesiastica in accordo al viceré di Napoli Don Parafan de Ribera, Duca di Alcalà, e al feudatario che per la fedeltà mostrata ottenne proprio in quella drammatica circostanza, il titolo di marchese[2]. Eventi dai quali, se da un lato risalta un contesto che ha tutti i requisiti di una vera e propria crociata contro interpretazioni evangeliche considerate eretiche dal potere clericale, dall’altro emergono aspetti legami di solidarietà nel mantenimento dei contatti con le famiglie d’origine della valle piemontese. Un’intensa religiosità e un forte senso di umanità affiorano tra le righe consegnate alla pellicola insieme a valori come il paratge, la cortesia, il prets e il lengatge[3]. Sono questi ultimi il pregnante riflesso in “langue d’oc” di una cultura ancora viva, comunicata con il linguaggio orale ai bambini e, per l’interesse scientifico di studiosi dell’università calabrese e dell’amministrazione provinciale di Cosenza, anche nelle scuole con un progetto di recupero della lingua scritta. E’ stato così realizzato un vocabolario in lingua occitana, un sito web e un opuscolo bilingue. Ma è ripercorrendo le stradine e i vicoli, i stretti anfratti e le scalinate che si compie quel miracolo virtuale di ricomposizione empatica tra generazioni tanto lontane.

La toponomatistica ha riscattato i nomi di luoghi come Angrogna, la cittadina di Valle Pellice che fu tra i primi e principali centri di irradiazione del protestantesimo, edelle personalità che si distinsero per l’affermazione dei valori significativi per la cultura valdese capaci di legarsi ad uno stile di vita sobrio ed essenziale tipico della civiltà contadina. E di questa vengono conservati in un Museo, collocato su più piani di un’antica abitazione, utensili e attrezzi d’uso quotidiano, suppellettili, mobili e ricami insieme ad abiti che le donne più anziane portano ancora abitualmente e le ragazze in occasioni particolari.

Gli abiti, soprattutto quelli femminili, portano il segno, visibile anche in molte abitazioni, dell’impatto con la severità dei padri Domenicani, inviati dopo l’eccidio a controllare la fine delle pratiche eretiche consistenti in riunioni religiose presso abitazioni private, dove venivano lette le Sacre Scritture e si pregava recitando nel dialetto delle Valli.

I portoni furono allora dotati di uno sportellino dai quali i Domenicani, riusciti nel frattempo a stanziarsi entro le mura in un convento che ancora oggi conserva intatti vestigia e solennità, e le guardie del signore di Fuscaldo potevano ispezionare l’andamento familiare mantenendone sotto controllo le azioni. Gli abiti, appariscenti nei colori accesi del rosso, del verde e del blu, tradiscono nello stile l’afflizione della penitenza. Secondo alcuni interpreti, infatti, l’assenza del taglio-vita e l’uso del grembiule che stringe il corpo al di sopra del seno, soprattutto per l’abito da sposa chiamato dournë, costituiscono elementi di continuità con il cosiddetto “sambenito” o abitello penitenziale, imposto ai guardioli dagli spagnoli dopo la strage.

Ma è nella cura dei capelli che il dolore della comunità si è fatto maggiormente sentire con l’ideazione di un copricapo a forma di cuore e con una sembianza solo apparente di civetteria femminile. Il penalh, così si chiama il copricapo fatto di una corona di corda a sagoma di cuore intorno alla quale venivano tirati i capelli tanto da indurre la calvizie. Un nome che ricorda per assonanza l’italiano “pena” e che non lascia dubbi sullo stile di vita della cittadina nascosta al mare da una fitta nebbia per diversi periodi dell’anno e alla propria dignità dai poteri dominanti. Convenzioni che con il tempo sono diventate parte di una quotidianità laboriosa chiusa in un’ancestrale riservatezza, le cui azioni prudenti e misurate venivano determinate non solo da una lunga tradizione quanto ormai da un diritto inconscio alla sopravvivenza. Intanto, seppure imposta nell’odio, la religione cattolica non più ripudiata, è stata accolta nelle sue radici profonde fino a divenire tutt’uno con l’antico senso religioso.

La devozione di allora ricompare intatta soprattutto nelle celebrazioni della Passione del venerdì santo, in quelle del patrono S.Andrea Apostolo festeggiato il 30 novembre. Ma non di rado compare tra le vie e le piazzole il nome del famigerato marchese o del padre domenicano Valerio Malvicino, responsabile insieme ad un altro inquisitore, Alfonso Urbino, di un’inchiesta nelle colonie di Montalto, San Sisto e Guardia, che accusava di eresia gli abitanti. Alla morte rimaneva come alternativa l’abiuria e il disprezzo ai quali molti coraggiosamente non vollero cedere. Dell’antica pratica religiosa non è rimasto che una grande lastrone di roccia alpina proveniente da Monte Pellice e collocata a specchio su una base di cemento proprio dove sorgeva l’omonima chiesa. «Considerate la roccia da cui foste tratti» è l’iscrizione tratta dal profeta Isaia (51,1) che ricorda il doppio nodo che congiunge i cittadini di Guardia alle sue origini secolari, e religiose, rintracciabili la prima nella regione denominata Occitania e la seconda nella Parola di Dio.

Ora i cittadini di Guardia Piemontese, seppure decimati dall’emigrazione, mantengono l’orgoglio della differenza e, con una sapienza che non disconosce le opportunità del villaggio globale, si muovono, sotto l’azione dell’amministrazione comunale, estendendo una rete di legami sempre più stretti con i paesi originari. E una importante soddisfazione possono raccoglierla con il riconoscimento della lingua occitana come lingua ufficiale nelle Olimpiadi d’inverno a Torino.

Dalla ripresa di rapporti con le zone dell’Occitania, avviati con un gemellaggio nel 1975 con Torre Pellice, la cittadina sta recuperando potenzialità che sembravano sopite aprendosi alle nuove dimensioni di innovazione tecnologica e mediatica con un elemento di novità rappresentato dal monito della tolleranza. Negata ieri con la sopraffazione dell’integralismo religioso, consegnata alle giovani generazioni come “fiore” di sviluppo interculturale. La settimana occitana, diventata da diversi anni un appuntamento insostituibile per i paesi provenienti dall’area occitanica franco-piemontese, non è solo un’enfasi di tipo folcloristico perché occasione di scambi culturali, di novità e innovazioni, oltre che di valorizzazione della gastronomia e della creatività occitana espressa nella musica, nell’arte e nella scrittura. Non a caso con il concorso "La Guardia in giallo” è stato incoraggiato un filone letterario che nell’ambientazione delle trame nel centro storico può ricercare originali espressioni di metafore. Ciò che i latini chiamavano inventio e renovatio può trovare nella culla calabrese di una lingua “minore”, relegata a rango di regionale o addirittura bandita dal re di Francia Francesco I nel 1539 per la sua natura ribelle, nuove fecondità per un pensiero che, perso tra relativismo etico e integralismi radicali, cerca nuove dimensioni di convivenza democratica.

 

Francesca Rennis

 

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NOTE

 

[1] In Pandolfo Collenuccio, Mambrin Roseo da Fabriano e Tomaso Costo, Compendio dell’Istoria del Regno di Napoli, Napoli, Gravier, III, p. 210 (prima edizione Barezzo Barezzi, Venezia, 1591) troviamo la descrizione di Tommaso Costa aggiunta nel 1586 circa lo stratagemma utilizzato dalle guardie del marchese per entrare nel castello di Guardia senza destare sospetti il 3 giugno 1561 prima del massacro. In Giglio, "Istoire des èglises rèformèes autresfois applèes vaudoises", Ginevra, 1644 viene narrata la storia dei primi insediamenti in Calabria dei Valdesi a Montalto Uffugo, Vaccarizzo, San Vincenzo La Costa e San Sisto dei Valdesi, oltre che a la Gardia. In Vegezzi – Ruscalla, "Colonia Piemontese in Calabria", Studio Etnografico, Torino 20 novembre 1862 abbiamo un tratteggio più preciso dell’insediamento: Nel «circondario di Paola, mandamento di Cetraro, sorge sur una montagnuola un paesuccio, che, giusta l’anagrafe data dalla statistica amministrativa del 1861, contava 1517 abitanti dediti alle pacifiche cure dei campi ed in ispecial modo alla cultura dei bachi da seta, Alpestre ne è il territorio, però bene vi allignano la vite, il fico, l’olivo, il gelso ed i cereali, ma ciò che fa meglio conosciuto questo paese si è una sorgente termale di antica celebrità, le cui acque sono un potente rimedio contro le affezioni nervose da cui trasse il nome il vicino paese di Fuscaldo (Fons Calidus). Esso Comune ha nome Guardia, e la favella dei suoi abitanti è diversa da quella dei Comuni circonvicini, come è diversa la foggia di vestire delle donne, non che alcune costumenze rurali». Inoltre vi troviamo un prezioso carteggio in cui viene descritta la notte dell’eccidio.

 

[2], Il titolo di marchese fu offerto a Salvatore Spinelli dopo l’arresto di Pascale. Fino ad allora tollerante verso quelle genti, apprezzate per la loro operosità e mitezza, Spinelli ruppe ogni indugio dopo la bolla emessa da papa Paolo IV ed emanata nello stesso 1559 che non concedeva l'assoluzione a chi era a conoscenza di attività ereticali e non le avesse prontamente denunciate.

 

[3]Paratge in lingua occitana vuol dire pari dignità in contrapposizione alla competizione che tende alla sopraffazione; per cortesia si intende l’insieme delle regole condivise che permettono il riconoscimento di ruoli e responsabilità; per prezt, riconducibile in senso letterale al termine “valore”, ha una forte valenza etica che va oltre il coraggio e lo sprezzo del pericolo, verso il raggiungimento di autorevolezza, rispetto e governo interiore; lengatge è il termine che non identifica solo la lingua d’oc, quanto il senso di appartenenza ad una patria, stato o nazione che non hanno un termine equivalente nel linguaggio occitano.