La prevenzione dell’insuccesso scolastico e del drop-out

di Francesca Rennis

Introduzione

Con il presente lavoro mi propongo di evidenziare alcune problematiche legate all’insuccesso scolastico e al fenomeno del drop out considerando come punto di partenza l’esperienza diretta di due studenti.

Non vuole essere, naturalmente, un contributo definitivo in quanto proprio per la pervasività dei fenomeni su indicati la riflessione e gli studi nonché l’attenzione del corpo decente si presenta ancora a un livello insufficiente per poter essere incisivo.

Pertanto intendo evidenziare il problema da un punto di vista conoscitivo e, successivamente, approfondire le potenzialità metodologiche a disposizione del docente per proseguire nella direzione prettamente disciplinare del mio ambito di insegnamento, quello riferito alle cosiddette scienze umane.

 

Capitolo 1 

 

Alcuni aspetti conoscitivi del fenomeno dell’abbandono scolastico e del drop-out

 

Massimo ha circa 18 anni, frequenta il primo anno di un istituto professionale per diventare elettricista anche se l’unica motivazione a presentarsi a scuola è quella di confermare il suo ruolo di leader nella classe. Al compimento della maggiore età decide di non frequentare più. Marco ha 16 anni, è nella stessa classe di Massimo. Non esprime nessuna volontà nello studio e seppure continuerà l’anno scolastico, passa la maggior parte del tempo sull’uscio dell’aula, né dentro né fuori. Quando rimane in classe è iperattivo e disturba continuamente. Dalla scuola recepisce messaggi e comportamenti che accompagnano contenuti e programmi. Mentre questi ultimi rimangono come sottofondo di nessun valore. Cerca di attirare l’attenzione dei docenti su di sé con richieste ripetitive e, talvolta, prive di senso. Se non ha abbandonato la scuola quest’anno è un probabile candidato e, in ogni caso, il tipo di competenze che riuscirà a sviluppare non saranno tra quelle elencate nel POF.

Massimo e Marco sono due giovani che hanno in comune un disagio familiare simile e che, oltretutto, vivono nello stesso ambiente socio-culturale. Il primo, genitori divorziati, di cui il padre ex detenuto e un fratello che ha già provato la ristrettezza del carcere. Difficoltà economiche spingono la madre a esperienze ripetute di prostituzione e il ragazzo stesso a “darsi da fare” con piccoli furti e lavori pesanti mal retribuiti, tanto che per cinque anni il Tribunale dei Minori lo affida all’assistente sociale.

Marco ha un padre alcolista. Più volte ha visto la sua violenza ripercuotersi su se stesso e sulla madre che si presta a lavori umili per tirare avanti la famiglia. Con i fratelli ha passato più tempo presso l’istituto di suore che non a casa.

Le realtà prese in esame sono sempre più frequenti nelle nostre scuole, dove consiglio di classe e docenti non riescono ad imprimere una svolta all’apprendimento sulla base degli obiettivi programmati. Acquisizione di nuove competenze rimane un’allegoria vuota.

Da questi esempi emerge un disagio sociale che sfida l’istituzione scolastica e dal quale sono stati rilevati elementi conoscitivi per la prevenzione del drop out. Importanti contributi in questo senso provengono dall’”Indagine conoscitiva sullo stato di attuazione dell’obbligo formativo in provincia di Salerno” effettuata dal CELPE e quella IDE 2005 (Indagine sul Disagio Educativo) dell’INVALSI.

Seguendo quella effettuata dal CELPE (Centro interdipartimentale di Economia e Lavoro e di Politica economica dell’Università di Salerno)[1] si evidenziano i seguenti elementi:

scarsa fiducia sulle capacità del sistema formativo di costruire in maniera adeguata le competenze necessarie per l’inserimento nel mercato del lavoro; nell’incontro tra domanda ed offerta vi è una ridotta incidenza dei canali istituzionali (Uffici del Lavoro) mentre prevalgono canali non formali, soprattutto le conoscenze personali e/o familiari; il tirocinio che viene visto come attività propedeutica all’inserimento lavorativo, con una ridotta connotazione formativa e con una maggiore propensione alla job experience.

«Ciò si traduce in una visione del sistema formativo abbastanza complessa: la formazione istituzionale, e non, viene vista come una attività che non viene finalizzata alle esigenze delle imprese le quali devono, di conseguenza, sopportare rilevanti costi per trasferire competenze e conoscenze agli aspiranti lavoratori per metterli in condizione di contribuire al processo produttivo».

La forbice tra formazione istituzionale e quella spendibile nel mercato del lavoro è pertanto ancora accentuata se, come credo, possiamo generalizzare al territorio italiano quanto emerge in questa indagine effettuata nella provincia di Salerno. L’indagine di per sé evidenzia una credenza diffusa tra i giovani che gioca un ruolo importante nella motivazione scolastica.

Per entrare nello specifico della formazione istituzionale la stessa indagine rileva che le decisioni di abbandonare la scuola dipendono in genere dalla carenza di cultura generale, preparazione specifica, disagio scolastico e familiare; i problemi di salute degli studenti hanno un’influenza positiva sull’abbandono anche se non significativa dal punto di vista statistico; le condizioni culturali e professionali delle famiglie di appartenenza risultano importanti; le condizioni economiche della famiglia segnalano che maggiore è la ricchezza rilevata, minore è la probabilità di abbandono; il sostegno scolastico e culturale della famiglia hanno segni attesi anche se non significativi; il senso di privazione (rinuncia al consumo di beni tipici dell’età adolescenziale per mancanza di soldi) e l’uso di elettrodomestici e altri beni del settore dell’elettronica riducono la probabilità di abbandono.

I risultati di questa indagine statistica evidenziano che «la decisione di abbandonare la scuola risulta associata in modo non trascurabile al livello culturale della famiglia di appartenenza, al livello di reddito e della sua variabilità».

Altri fattori sono: la convinzione dei drop-out di avere scarsa attitudine verso lo studio, la volontà di guadagnare, la presenza di problemi nel rapporto con la scuola nel suo complesso e dall’incomprensione con gli insegnanti.

Fattori trascurabili sono invece: i costi diretti della frequenza scolastica.

I drop-out, inoltre non sottostimano l’utilità dello studio; l’atteggiamento verso il mondo del lavoro presenta elementi di maturità, vi è infatti un maggior grado di convinzione tra i drop-out rispetto agli studenti che le responsabilità individuali nello stato di disoccupazione contino molto; l’attitudine negativa nei confronti dello studio è fortemente condizionata dalle preferenze e dal retroterra culturale della famiglia verso lo studio, i problemi di integrazione riguardano l’organizzazione dell’attività di formazione piuttosto che i problemi relativi al rapporto personale con gli insegnanti, l’abbandono risulta fortemente legato a fattori riguardanti le preferenze dei giovani e non ai fattori oggettivi relativi alle opportunità di lavoro extra-scolastico.

I suggerimenti dell’indagine vanno oltremodo in direzione di una politica di integrazione che coinvolga Regioni, Province, Enti di Formazione, Dirigenza scolastica, CSA, Centri per l’impiego in modo da organizzare “percorsi alternativi” di formazione, apprendistato e inserimento sul mercato del lavoro «disegnati sulla base delle loro effettive esigenze».

 

Per quanto riguarda la ricerca dell’INVALSI[2], avviata nel 2003 e indirizzata al primo biennio della scuola superiore, ha evidenziato una stretta correlazione tra disagio sociale-disagio scolastico-dispersione scolastica, per risolvere i quali occorrono strategie di rete, rivedere il concetto di dispersione e ridefinire indicatori adeguati alla valutazione del fenomeno. In particolare si propone di ricercare nuove strategie tra la scuola e la famiglia e tra scuola e territorio; rivalutare il ruolo della professionalità docente mediante un’adeguata formazione iniziale, un continuo aggiornamento, un potenziamento delle capacità di mediazione didattica; potenziare una continuità tra primo e secondo ciclo, periodo che rappresenta una elevata criticità dal punto di vista della dispersione, individuando forme di orientamento idonee in ingresso e in itinere in quanto l’orientamento educativo si pone come antidoto ai processi di esclusione che, sotto la maschera della valorizzazione dei cosiddetti talenti personali, sanciscono un “destino sociale” inscritto nelle vecchie e nuove forme di marginalità; sviluppare una cultura della valutazione per un intervento di qualità sul disagio educativo e, quindi, sulla dispersione.

 

Un problema aperto riguarda dunque la tracciabilità dei percorsi scolastici e formativi dei singoli studenti affinché la scuola torni ad avere un senso per la quale, intanto, necessita un’anagrafe dei giovani in obbligo formativo per politiche pubbliche mirate a ridurre il fenomeno della prematura uscita degli adolescenti dal percorso scolastico e formativo sia ad aumentare il livello di competenze individuali necessario per l’ingresso nel mercato del lavoro.

Nell’attuazione di tali percorsi sul ruolo dell’insegnante ricadono particolari aspettative e una perenne riflessione sul rapporto tra formazione e scuola. Come evidenzia infatti Spadafora[3] recuperando il contributo di Granese (1993), Frabboni (1996) e Burza (1999) la progettualità scolastica deve tenere in debito conto il contesto esistenziale con cui interagire anche in vista «dei processi di frantumazione e di disseminazione che creano mancanza di punti di riferimento e disorientamento»[4].

 

 

Capitolo 2 

 

Tracciabilità dei percorsi scolastici

 

L’insegnante di fronte a coloro che, da un testo base della pedagogia della marginalità come quello di Piero Bertolini e Letizia Baronia (1993), sono stati chiamati “ragazzi difficili”[5] dovrebbe muoversi oltre “l’ostacolo epistemologico” descritto da Bachelard[6] e creare una rottura tra linguaggio scientifico e pensiero comune per recuperare il senso della persona nella propria irripetibilità, al limite dell’indecibilità (Foucault) e quindi il soggetto prima di tutto, come essere significante[7]. Dal punto di vista pedagogico rifiutare il pregiudizio antropologico vuol dire pensare al relativismo della marginalità (basta pensare al “barbone”, al “disabile”, al “vecchio”), avvicinarsi all’altro con le capacità di ascolto, accogliere il divario fra conoscenza e realtà entro la quale si configura un incertezza (ontologica) che è fonte inesauribile di creatività. Riconoscere, insomma, percorsi esistenziali alternativi.

In questo contesto parlare di “rieducazione” risulta arrogante e senza senso, mentre invece si aprono altre possibilità di incontro facendo emergere quegli spazi, rendendoli intelligibili e orientandoli verso un progetto di vita[8]. Si tratta di decostruire, decontestualizzare e anche da imparare da quelle “avventure” conoscitive dei ragazzi di strada.

«La pedagogia della marginalità dovrebbe scandire il passaggio dall’ordine sentimentale in cui spesso tali riduzioni si inseriscono a quello della formalizzazione, della simbolizzazione, dell’autocoscienza. È a partire dal loro universo simbolico che possiamo condurre questi ragazzi verso una lettura più consapevole del loro modo di intenzionale la realtà e dunque della percezione del sé. Ed è a partire dai codici che conoscono che possiamo condurli nell’esplorazione di altri linguaggi, di altre astrazioni, di nuove opportunità per rendere più trasparente l’intelligibilità della loro avventura esistenziale»[9].

Porsi fuori dal pregiudizio antropocentrico vuol dire mantenere l’intenzionalità dell’intervento educativo considerando come punto di partenza il riconoscimento dell’alterità, del suo universo simbolico dal quale l’insegnante può condurre il ragazzo verso una lettura più consapevole del sé e del proprio stile di interpretazione del mondo.

«A questo fine è indispensabile proporre nuove esperienze conoscitive, ma iniziando a lavorare in quel tessuto esperenziale, in quella antropologia, in quel particolare stile di conferire valore al mondo. L’intenzionalità deve essere così resa consapevole e spostata verso ambiti sempre più ampi. Una intenzionalità che impari a sostenere il difficile equilibrio fra autonomia e dipendenza, tra forza e fragilità, fra io e mondo»[10].

 

La scuola dovrebbe proporsi, in un contesto di studenti a rischio, come ambiente di prevenzione dalla devianza offrendo strumenti che rendano il ragazzo più resistente alle accattivanti lusinghe provenienti da un mondo povero di valori e, il più delle volte, soggetto alla malavita organizzata.

 

La strategia di costruzione e rafforzamento della resilienza modifica drasticamente le prospettive tradizionalmente seguite nella gestione del disagio e dell’emarginazione: piuttosto che indagare le carenze, le inadeguatezze, il disadattamento, la trascuratezza grave, la debolezza del carattere, vanno disegnati e realizzati i corrispondenti strumenti compensativi. Vanno cioè individuati gli eventuali elementi positivi sui quali far leva per rafforzare le capacità di resistenza e superare le difficoltà per dare una svolta alla vita dei ragazzi svantaggiati. L’operatore sociale deve scoprire quel punto di forza per poi disegnare su di esso un progetto in cui la rete informale si attivi nel suo complesso, individuando in particolare un adulto che accetti incondizionatamente il ragazzo e che voglia avere fiducia in lui, permettendo alle sue potenzialità di esprimersi[11].

 

La teoria della resilienza è stata soprattutto designata dal sociologo e demografo Stefan Vanistendael come responsabile del Dipartimento Ricerca e Sviluppo del ICCB/BICE (International Catlolic Child Bureau / Bureau International Catholic dell’Enfance, che si propone di realizzare politiche tese a una maggiore tutela dell’infanzia, della gioventù e della famiglia).

Il termine “resilienza” è mutuato dalla tecnologia dei metalli, nell’ambito della quale viene definita come la resistenza a rottura dinamica di un metallo, determinata con una sequenza di urti; essa è quindi l’inverso di fragilità. Ne troviamo una riflessione sia nel testo del 2002 di Melita Cavallo sia in quello scritto a quattro mani da Anita Gramigna e Marco Rigetti (2001). E’un concetto che si presta a descrivere quella capacità di una persona di evitare “percorso fatali” pur vivendo in situazioni di grave stress e di disagio sociale ed è una caratteristica “virtuosa” che è stata riscontrata anche nel gruppo. Si distingue come capacità dell’individuo di resistere, se sottoposto a gravi pressioni, alla distruzione della propria integrità e capacità di costruzione di una vita normale in un contesto di ostilità ambientale. In quest’ultimo caso rivestono una fondamentale importanza alcuni elementi della personalità in interazione permanente con gli elementi ambientali in grado di rafforzare la resistenza e la capacità di costruzione che in definitiva corrispondono ad un rafforzamento dell’autostima e dell’area del sé e della comunicazione. Pensiamo ad esempio ad attività che facilitano il processo di socializzazione, che attivano sentimenti di solidarietà e contribuiscono a costruire una comunicazione corretta tra i componenti un gruppo. Rilevanti dunque le competenze relazionali e comunicative di insegnanti ed educatori che siano anche portatori di valori autentici.

 

 

 

Capitolo 3

L’insegnamento della Filosofia e delle Scienze umane

 

In una prospettiva non deterministica o evoluzionistica né ipostatizzata[12], l’insegnamento disciplinare non può essere ridotto a mera trasmissione di contenuti ma questi stessi debbono essere adattati al discente in modo da sviluppare il senso di autonomia progettuale e di ricerca di senso della propria esistenza affinché si determini e non venga determinato dal contingente, scelga e non cada nell’indolenza verso una realtà soffocante.

«Parlare di “forma” spesso mette in discussione uno dei principi educativi centrali, quale quello che il vero processo formativo ha luogo nel rispetto dell’autenticità del soggetto, fuori dalle gabbie dell’omologazione e dell’adattamento a schemi prefissati, fuori-uscendo cioè da tentazioni con-formative che, comunque, stanno sempre in agguato, dietro l’angolo»[13].

La trasmissione dei contenuti deve pertanto accompagnarsi a metodologie che implicano capacità comunicative ed ermeneutiche da parte dell’insegnante per inverare, oltretutto, gli Obiettivi generali del processo formativo previsti dalle “Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati dei percorsi liceali”[14].

 

Il processo di apprendimento ha bisogno, soprattutto per i ragazzi che denotano atteggiamenti e comportamenti di disagio, di un sostegno metodologico alla motivazione. Occorre saper sviluppare processi di apprendimento diversi e più autonomi diversi da quelli della ricezione passiva, prediligendo invece i processi di scoperta, azione, per problemi.

Si tratta per l’insegnante di familiarizzare con il metodo operativo del laboratorio, quello investigativo della ricerca sperimentale, quello euristico-partecipativo della ricerca-azione, quello individualizzato del mastery learning.

 

 

 

3.1 L’esperienza di laboratorio: la prassi come azione dialogica in cui il soggetto “costruisce” il proprio apprendere

 

L’esperienza di laboratorio ha offerto la possibilità di riflettere su impostazioni didattiche riconducibili ai metodi storico-cronologico e “per problemi” applicabili, in particolare, all’insegnamento della filosofia. La simulazione attraverso una seduta del P4C, acronimo che sta per Philosophy for children, ha reso possibile il confronto tra modalità comunicative, contenuti e obiettivi tra i modelli tradizionale e quello interattivo e dialogico. Sono state, inoltre, prese in esame le angolazioni psicologiche, sociologiche e filosofiche del pensiero costruttivista[15]. Senza pretendere di essere esaustivi e semplificando al massimo i rapporti tra metodi di comunicazione didattica e relative prospettive teoriche, potremmo dire che il modello dialogico ha le sue radici nel metodo “per problemi” o zetetico, se si vuole usare la terminologia kantiana, mentre il modello storico è riconducibile all’idealismo e alla riforma gentiliana[16]. Il modello interattivo può essere ricondotto alla pragmatica della comunicazione (da Morris a Bateson, Watzlawick, Beavin e Jackoson, autori di La pragmatica della comunicazione umana).

Diverse dunque le prospettive di pensiero, diverso il metodo di insegnamento in quanto il quadro stesso di riferimento fissa le priorità della relazione educativa determinando nello stesso tempo gli obiettivi. Caratteri principali di un intervento didattico improntato come lezione frontale (modello tradizionale) sono l’excursus storico-lineare, l’elencazione e la “spiegazione” dei concetti, il considerare la classe di riferimento come standard senza tener conto delle differenze tra gli studenti. Obiettivo principale è, dunque, la trasmissione dei saperi, conseguenza sul piano didattico della cosiddetta epistemologia del rispecchiamento che nella teoria kantiana trova una rottura epistemologica.

L’insegnamento, centrato sui contenuti, svaluta la dimensione “metacognitiva” dell’apprendere a filosofare. Dal punto di vista della comunicazione, questa è di tipo lineare in quanto viene considerata come un comportamento spiegabile secondo la logica dello stimolo-risposta. L’emittente, in questo caso il docente, non dovrà fare altro che ordinare le sue conoscenze in funzione delle informazioni da dare e codificare in modo che siano riconoscibili dal punto di vista morfo-sintattico. Il ricevente invece ha il compito di decodificare rimanendo impassibile e muto. Solo nella versione del metodo interattivo (considerata per alcuni una variante di quello tradizionale) si cerca un feedback, ma la comunicazione seppure più flessibile e attenta al contesto classe, permane come attività statica, con atti separati di comunicazione che presentano inizio e fine precisi.

Infatti, se nel primo messaggio viene scandito in modo tale da non suscitare problemi di comprensione, nel secondo la decisione da parte dell’insegnante di verificare il livello di apprendimento avvia un processo comunicativo circolare che pertanto condiziona la stessa didattica anche se la comunicazione rimane ancora legata ad un rapporto univoco tra insegnante e alunno.

Se nel primo caso il pensiero si forma come specchio in conformità al pensiero pensato, nel secondo c’è la possibilità che si creino spazi di creatività, ma anche di esclusione dall’interazione.

Nel modello dialogico, invece, i partecipanti sono nello stesso tempo emittente e ricevente. La comunicazione in questo caso è vista come un processo relazionale significativo, pregnante di spontaneità ed aperto alla negoziazione di significati. La circolarità della comunicazione permette a tutti i partecipanti di sentirsi parte integrante del gruppo classe. L’azione dell’insegnante è rivolta a contestualizzare i contenuti, a considerare il setting più idoneo all’interazione, a facilitare il dialogo tenendo conto di quelle variabili che nei casi precedenti vengono considerati “disturbanti”, come i rumori o particolari condizioni fisiche dei soggetti partecipanti.

L’interesse verso la comunicazione da parte dell’insegnante (inesistente o quasi nel modello tradizionale), al quale si chiedono competenze sociali e di mediazione, nasce dalla considerazione che l’apprendimento di tipo formativo diventa efficace in un contesto in cui il dialogo supera la fase della conversazione spontanea. In questa prospettiva dialogica si fuoriesce dalla conoscenza come adequatio alla realtà per rivolgere lo sguardo all’azione educativa. Alla “spiegazione” viene sostituita l’interpretazione e la ricerca di significato. Matrice di questa prospettiva che accoglie elementi di continuità nella teoria sistemica, negli studi relativi al rapporto tra linguaggio e pensiero e nel costruttivismo. È l’ipotesi zetetica, di indagine, che Kant ha voluto affidare come compito alla filosofia (Dottrina trascendentale del metodo in Critica della ragione pura; Note sull’organizzazione delle lezioni nel semestre invernale 1765-1766) trascendendo dai contenuti e gettando le basi ad alternative epistemologiche che, tentando di superare il dualismo gnoseologico, rilevano la complessità quale nuovo orizzonte dell’agire.

Lontano da uno stile didattico nozionistico-enciclopedico del sapere che ha svalutato i processi cognitivi-emotivo-relazionali, il modello dialogico propone allo studente di fare esperienza (nel senso di Dewey) delle proprie idee attraverso il confronto con gli altri e il controllo della discussione razionale, tale da potersi rendere autonomo costruttore della propria formazione. L’insegnante si pone allora come facilitatore del dialogo e supporto all’acquisizione di competenze e abilità (scaffolding).

In rapporto al tema che stiamo trattando è rilevante notare che nel caso del modello tradizionale basato sulla lezione frontale gli studenti, soprattutto quelli a rischio, trovano la possibilità di nascondersi dietro un atteggiamento passivo e superficiale che evita loro di farsi coinvolgere emotivamente, mentre è facile che nel momento della verifica si crei un clima di competitività e antagonismo o, addirittura, di rinuncia. Estraneità e passività vogliono invece essere recuperati attraverso il modello dialogico, promuovendo un clima di collaborazione, in una relazione educativa che si riveli come autentica e che dal punto di vista del sapere sappia organizzare i contenuti in modo da sconfinarli da quella forma di parcellizzazione, a volte, gerarchizzata, alla quale sono ridotti da una gestione tradizionale della classe. In sintesi, il confronto tra i diversi modelli della comunicazione didattica permette di recuperare le linee di fondo che generano l’agire pedagogico e, con queste, la consapevolezza del continuum tra teoria e prassi quale elemento fondante e indispensabile della didattica.

 

 

 

 

Conclusioni

 

La legge n. 59 del 17 marzo 1997, art. 21, prevede che autonomamente le scuole realizzino percorsi di prevenzione dell’abbandono attivando misure di raccordo con il territorio e il mondo del lavoro e la legge n. 9 del 20 gennaio 1999, nel disporre l’elevamento dell’obbligo di istruzione, sottolinea l’esigenza di iniziative di orientamento al fine di combattere la dispersione: misure che devono essere integrate con il ruolo e la professionalità docente di cui si osservano sfaccettature inadeguate e non omogenee soprattutto per quanto riguarda la valutazione degli studenti e l’incapacità di costruire percorsi atti a rispondere alle esigenze dettate dalla complessità sociale.

«E come la complessità sociale avanza obbligando la scuola ad imporre contenuti sempre più difficili, così l’insegnante deve farsi tramite della stessa complessità, proponendo strategie didattiche e metodologiche che si facciano mediazione per riportare all’essenziale tale complessità, recuperando il senso dell’insegnamento inteso come “comunicazione significativa”. Affinché questo accada è in parte indispensabile abbandonare quegli stessi tecnicismi che assoggettano la persona all’obiettivo da raggiungere»[17].

Considerare la complessità riportandola all’essenziale senza ridurla a visioni totalizzanti vorrebbe dire promuovere la persona umana nelle sue diverse dimensioni e aiutare quella ricerca del sé e del proprio benessere che trova lo sfogo della propria creatività in una realtà sociale fondata sui valori democratici.

 

 

 

Bibliografia

 

 

  • Pierangelo Barone, Pedagogia della marginalità e della devianza. Modelli teorici e specificità minorile, Ed. Angelo Guerini e Associati, Milano, 2001
  • Guido Benvenuto-Gianfranco Rescalli-Aldo Visalberghi (a cura di), Indagine sulla dispersione scolastica, RCS Libri, Città di Castello (Perugia), 2000
  • Piero Bertolini-Letizia Caronia, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento, La Nuova Italia, Firenze, 1993
  • Viviana Burza, Pedagogia, formazione, scuola, un rapporto possibile, Armando, Roma, 1999
  • Viviana Burza, La formazione tra marginalità e integrazione, Periferia, Cosenza 2002
  • Rosa Maria Calcaterra (a cura di), L’insegnamento della filosofia oggi, Schena Ed., Fasano 1994
  • Melita Cavallo, Ragazzi senza. Disagio, devianza e delinquenza, Bruno Mondatori Ed., Milano, 2002
  • Antonio Cosentino, Costruttivismo e formazione. Proposte per lo sviluppo della professionalità docente, Liguori, Napoli, 2002
  • Franco Frabboni – Franca Pinto Minerva, Manuale di pedagogia generale, Laterza, Bari, 1996
  • Anita Gramigna-Marco Righetti, …Svegliandomi mi son trovato ai margini. Per una pedagogia della marginalità, CLUEB, Bologna, 2001
  • Alberto Granese, Il labirinto e la porta stretta, La Nuova Italia, Firenze, 1993
  • Marco Vinicio Masoni (a cura di), Ragazzi si cambia. Un progetto per la promozione del successo e del benessere nella scuola, Ed. UNICOPLI, Milano, 1999
  • Ruffaldi E., Insegnare filosofia, la Nuova Italia, Firenze 1999
  • Giuseppe Spadafora, La pedagogia tra filosofia, scienza e politica nel Novecento e oltre, in Franco Cambi, Enza Colicchi, Marielisa Muzi, Giuseppe Spadafora, Pedagogia generale: identità, modelli, problemi, La Nuova Italia, Firenze, 2001
  • Fiorino Tessaro, Metodologia e didattica dell’insegnamento secondario, Armando Editore, Roma 2002

 

 

 

SITI INTERNET

 



[1] Dal sito Internet: www.celpe.unisa.it/drop_out.asp - L’indagine si riferisce al periodo aprile-dicembre 2004

[2] La ricerca è pubblicata sul sito http://www2.invalsi.it/RN/ide/sito/index.htm

[3] Spadafora G., La pedagogia tra filosofia, scienza e politica nel Novecento e oltre, in Franco cambi, Enza Colicchi, Marielisa Muzi, Giuseppe Spadafora, Pedagogia generale: identità, modelli, problemi, la Nuova Italia, Firenze, 2001, p. 87: «Se la formazione è esito di dinamiche che oscillano tra crescita biologica ontologica della persona, intenzionalità conoscitiva e imponderabilità degli accadimenti – esito mai definito e definitivo – se è frutto di esperienze di autoformazione ma anche di azioni eterodirette, se è sintesi di molteplici esperienze di intersoggettività, è evidente che il problema della formazione rinvia necessariamente a un’intenzionalità educativa intesa a far prendere forma di persona a un soggetto da sottrarre tanto all’ineluttabilità dell’evento, quanto a ogni possibile processo di con-formazione, o peggio di de-formazione. Una tale intenzionalità educativa prospetta l’analisi del rapporto formazione-scuola come centrale sia perché una progettualità che voglia fronteggiare l’evento deve misurarsi con un modello formativo capace di trovare in sé le risorse per il superamento dell’emergenza esistenziale, sia perché la stessa progettualità deve prevenire e fronteggiare qualsiasi eventuale variabile che possa intervenire sul processo formativo orientandolo verso dimensioni che impediscono o in parte o in tutto, la piena realizzazione dell’umanità della persona. E’ per le ragioni appena accennate che il rapporto formazione-scuola non può oggi prescindere dalla consapevolezza che gli scenari della contemporaneità pongono nuovi problemi al progetto della formazione, nel senso che esistono innumerevoli soggetti, luoghi, tempi e processi della formazione, al punto che alcuni autori teorizzano l’esigenza di un sistema formativo integrato inteso come una rete di agenzie formative intenzionate a costituire un patto progettuale e operativo per la formazione».

[4] Spadafora G., La pedagogia tra filosofia, scienza e politica…, op. cit. p. 87

[5] Bertolini P.-Caronia L., Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento, La Nuova Italia, Firenze, p. 2: «Questi ultimi sono tali soprattutto perché hanno alle spalle esperienze formative gravemente insufficienti e deludenti, sicché appare addirittura ovvio che essi abbiano innanzitutto bisogno di incontrarsi e di scontrarsi con persone e con metodi educativi realmente alternativi».

[6] Gaston Bachelard, La formazione dello spirito scientifico, Raffaello Cortina Editore 1995, p. 13 dove afferma che ogni tratto del carattere dello stato prescientifico e della sua mentalità è allo stesso tempo un ostacolo epistemologico al procedere della scienza verso il progresso (spirito nuovo).

[7] Burza Viviana, La formazione tra marginalità e integrazione, Edizioni Periferia, Cosenza, 2002, p. 14, evidenzia da un punto di vista problematico-esistenziale che «fare pedagogia, ancora oggi come prima, significa misurarsi con la complessità e la problematicità di persone esposte anche alla perdita, al fallimento, allo scacco. E in questa “inter-rogazione”, certamente la coscienza pedagogica si risveglierebbe per ridare la voce ai luoghi del silenzio».

[8] Per un discorso critico-problematico sul senso determinato da diversi modelli teorici vedi Burza V., La formazione…., op. cit., pp. 29-46

[9] A. Gramigna-M. Rigetti, …Svegliandomi mi sono trovato ai margini. Per una pedagogia della marginalità. Bologna, Clueb, 2001, p. 125

[10] A. Gramigna-M. Rigetti, …Svegliandomi …, op. cit., p. 155

[11] Melita Cavallo, Ragazzi senza. Disagio, devianza e delinquenza, Bruno Mondatori Ed. Milano, 2002, pp. 132-141

[12] Centrando il discorso sugli aspetti di prevenzione-azione in ambito didattico disciplinare ho scelto di non dilungarmi sui concetti “centro” e “margine”, né sugli aspetti teoretici attinenti ad un discorso più specificatamente pedagogico. Pertanto ho assunto a priori le ipotesi del pensiero critico-problematico che ha offerto a cominciare da Bertolini una pragmatica nella marginalità.

[13] Viviana Burza, La formazione tra …, op. cit., p. 46

[14] Vedi Obiettivi generali del processo di formazione in “Indicazioni nazionali per i piani di studio personalizzati dei percorsi liceali” – Allegato C (art. 2.3) al Decreto legislativo 17 ottobre 2005

[15] Per una esauriente elaborazione dei temi del costruttivismo si veda Antonio Cosentino, Costruttivismo e formazione, Liguori, Napoli 2002

[16] Calcaterra R. M. (a cura di), L’insegnamento della filosofia oggi, Schena Ed., Fasano 1994

Ruffaldi E., Insegnare filosofia, la Nuova Italia, Firenze 1999

[17] Marco Vinicio Masoni (a cura di), Ragazzi si cambia, Ed. UNICOPLI, Milano, 1999, p. 191