L'insostenibile leggerezza del carcere

Regole ferree che lasciano intravedere la perduta libertà. Volti severi che muovono alla ricerca di un sé diverso, ma cosa cambiare? Come recuperare il tempo perduto? Perché muoversi nell’incertezza di un «forse sarò…» quando non si conoscono altre vie che quelle intraprese? Forse il carcere è un destino dal quale non si può sfuggire?

La pesantezza del carcere è un’equazione caotica di algoritmi indecifrabili. Possiamo cogliere solo alcune coordinate spaziali nel vissuto che riesce a trasparire dagli sguardi e da un linguaggio a volte troppo lontano dalla grammatica per essere raggiungibile oppure nelle relazioni che riescono a maturare tra piccoli gruppi. Effimere come la permanenza, la cordialità, il desiderio di uscire da strette visioni egocentriche. Quelle che, più solide delle mura carcerarie, come edera confermano la propria presenza nel mondo. Sentimenti abbarbicati ad un solido nucleo interiore compongono la risultante di un’equazione che nessuna ipotesi scientifica può verificare. Ognuno presenta nello stesso momento variabili incontrollabili e laddove si riscontra un cambiamento, possibile risultato di rieducazione o più spesso di autorieducazione, non possiamo che considerarne la fragile validità.

Solo nella libertà potremmo verificare l’autonomia orientata al benessere collettivo.

 

L’unico dato certo per chi sceglie di avvicinarsi a questo mondo è invece “l’insostenibile leggerezza” del carcere. Chi vi opera infatti deve sopportare il peso delle malinconie che si accavallano e intersecano con bisogni e contraddizioni. Una volta fuori, passati i cancelli, non si dimentica quella confusione di emozioni e linguaggi diversi. Si ripensano per comprendere meglio come agire e ricavare un segno positivo che possa essere generalizzato ad altri o addirittura a quelle espressioni di devianza giovanile che attendono di essere fermate. Perché è lì che giace, ancora nascosta allo sguardo ma in agguato, l’insostenibile leggerezza. Pesantezza nelle scuole che non riescono a controllare i disagi degli studenti, motivare l’apprendimento o limitare l’insuccesso. Il più delle volte l’inizio di quella insostenibile leggerezza si coglie nella dispersione scolastica, drastica decisione che racconta la sfiducia nelle istituzioni, il crollo delle convinzioni. La leggerezza dell’essere, per dirla con Kundera, non si afferma in quegli spazi dove la festa impone le sue regole di oblio e di inconsistente vacuità. La ritroviamo sotto forma di responsabilità e solidarietà nelle persone che aprono i propri occhi per donare uno sguardo di fiducia. Ed è proprio in quello sguardo di com-passione che si svela in tutta la sua pesantezza l’insostenibile leggerezza dell’essere. La reclusione in carcere non riesce a nascondere questa esistenza che per quanto velata, lontana dal mondo civile, si impone con tutta la sua esuberanza, emergendo dal sotterraneo inconscio del vivere civile.

 

«Si ripeteva che non doveva arrendersi alla compassione, e la compassione lo ascoltava a testa bassa, come se si sentisse colpevole». Risuonano le parole di Kundera. Sembrano cucite addosso alla società del benessere, proiettata ad assolvere la funzione del consumo sfrenato, sorda ai richiami di “una parte di noi”. Umanità che attende la sua civilizzazione: mi riferisco alla società civile ancora certa di poter risolvere i problemi della sicurezza dimenticandosi di quel sé che, invece, emerge dalla palude dell’inconscio collettivo con rinnovata violenza ogni volta che gli viene negato di vivere.

 

E quante voci ha la violenza! Tutte all’insegna della leggerezza in quei percorsi obbligati di cui l’uomo non ha coscienza perché è l’istinto primordiale della sopravvivenza ad avere la meglio, ad accordarsi con desideri di distruzione e autodistruzione. La scelta qui non ha scampo, la libertà si tramuta in necessità viscerale e l’autodeterminazione in egoismo e cattiveria. L’ethos scompare in un cumulo di cenere da cui attendiamo rinascere una fenice dalle piume nuove. Ma la scintilla di questa nuova vitalità non è più in mano agli dei celesti. Abbiamo istituzioni e leggi che possono assumersi il peso di tanta leggerezza, insostenibile per quella solida ma sottile maglia costruita dalle reti del volontariato sociale. Prevenire il reato è possibile finanziando l’attuazione di leggi già esistenti e rinvigorendo l’azione scolastica a più livelli per sganciare quelli che Piero Bartolini in testo ormai classico ha definito “ragazzi difficili” dalle grinfie della criminalità organizzata. Per la repressione c’è sempre tempo.

 

Francesca Rennis

26 gennaio 2011