L'indicibile libertà

L'esperienza educativa nella Casa Circondariale di Paola in questo saggio che ho avuto il piacere e l'onore di vedere pubblicato su I sentieri della ricerca, Rivista di Storia Contemporanea diretta da Angelo Del Boca, n. 19/20, Torino, pp. 159-181


«Il vero viaggio di scoperta

non consiste nel cercare nuovi paesaggi,

ma nell’avere nuovi occhi».

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto

 

Difficile trovare un carcere all’interno di uno spazio cittadino. L’architettura carceraria corrisponde ad un pensiero ancorato nelle radici storiche dell’occidente, come ha dimostrato in diverse opere Michel Foucault. Quegli spazi vuoti tra l’edificio e la sua città ricalcano, come un fossato intorno al suo castello, sentimenti e pregiudizi, paure e oppressioni che attendono di essere guariti. Spazi vuoti ovvero senza tracce di integrazione con la città. Tra le persone, quello spazio fisico attende ponti di progettualità e solidarietà; nel frattempo, l’edificio carcerario appare come un qualcosa di misterioso per gli abitanti di paesi e città vicine che hanno imparato per abitudine a conviverci. Misterioso come le storie arcane che nasconde tra le sue mura, sfuocate di fronte non ai verdetti quanto agli stigma che tali verdetti producono nell’immaginario collettivo. L’esclusione sociale, però, non aiuta a fare giustizia. Lo ha intuito anche la normativa, a cominciare dalla legge Gozzini. A livello regionale, il protocollo d’intesa firmato tra il Ministero della Giustizia e la Regione Calabria[1] ribadisce la necessità del recupero e del reinserimento sociale del detenuto, tutelandone la salute. Eppure l’attuazione dei principi, come spesso accade, trova enormi difficoltà. Ci sono problemi strutturali, più volte denunciati, che riguardano la sovrappopolazione carceraria rispetto alla capienza degli edifici e al numero delle guardie, che pure sono sempre più formate al dialogo e sempre più lontane da quella letteratura che le ha dipinte come secondini senza scrupoli. La cronaca ribadisce continuamente la drammaticità di condizioni di vita aberranti. Ci sono, poi, la mentalità e la storia dei singoli detenuti. Nel carcere portano già discriminazione sociale, povertà culturali, solitudini e ferite che non riescono a guarire neanche quando incombe il peso del rimorso per il reato commesso. La privazione della libertà di movimento e soprattutto della libertà comunicativa e la costrizione a cadenzare il tempo su ritmi sempre uguali acuisce ogni pensiero, ogni battito del cuore, ogni percezione.

La libertà, non viene compresa come dimensione antropologica legata all’essere dell’uomo nel mondo, in quanto appare contaminata da bisogni indotti dal consumismo, compresi come forme di libertà contingente, costruita dai media e dalla società di massa. Conformismo e nichilismo entrano in carcere con la vita dei detenuti stessi, amplificandone il disagio fino a provocare conflitti esistenziali gravi. Laddove dominio e assoggettamento si rendono più espliciti, come nel carcere appunto, ritorna con maggiore evidenza l’esigenza di esercitare la pratica del pensiero critico e divergente, di riconsiderare, di conseguenza, un’etica della cura. L’esperienza maturata con quattro anni di volontariato nella casa circondariale di Paola ha prodotto in me la convinzione che i detenuti conosciuti percepiscono la libertà nelle sue determinazioni particolari, soprattutto in contrapposizione ai momenti di frustrazione dovuti alla negazione di accesso ad acquisti, all’informazione, alle promesse di benessere pubblicitario. Il soggetto, pilotato nelle scelte, si sente libero in quanto consuma e pertanto, paradossalmente, perde le attitudini proprie di soggetto; anzi, in questo rapporto sbilanciato tra soggetto e oggetto possiamo individuare alcuni nodi sui quali si costruisce l’omologazione e la perdita d’identità, con inevitabili conseguenze di disagio, la priorità della merce rispetto alle persone con l’impossibilità di rispettare i diritti umani (chiusura delle frontiere), la nascita di nuovi integralismi e sentimenti di ribellione e odio massificati, la dipendenza della conoscenza e della scienza dal potere che, impedendo processi democratici, coniuga l’idea di sviluppo con quello di sfruttamento. In definitiva, in una istituzione “totale” è più immediato il rapporto tra forme di libertà contingente e società dei consumi come generatrice di desideri e bisogni. Sottoposto a tempi già scanditi e in spazi limitati il disagio di chi è ristretto rivela il paradosso di un’istituzione  “totale” e che tuttavia prevede il reinserimento e la rieducazione dei detenuti. Da un lato quindi prevede e mette in atto una prassi di “spoliazione” dell’identità del singolo; dall’altro, prevede forme d’integrazione e superamento di conflittualità[2]. In questo contesto dovremmo chiederci se sia ancora legittimo parlare di educazione in termini di rieducazione solo perché parte di un articolo costituzionale (art. 27). 

Come si può ben capire, focalizzare il discorso sul carcere solo sulle problematiche legate alla sicurezza è riduttivo e per di più imperdonabile in una società che vuole sfidare la complessità globale. Indulto o amnistia, d’altra parte, non risolvono i problemi della sovrappopolazione carceraria e da un indulto lanciato in un clima demagogico, privo di supporti strutturali come quello del luglio 2006 si potevano già prevedere le tristi, note, conseguenze. Nel mese di ottobre 2007 un detenuto su quattro, questi i dati ufficiali, è rientrato in carcere per recidiva[3]. Sarebbe troppo semplice giustificare il dato, comunque allarmante da punto di vista sociale, dando la colpa alla misura di clemenza. Ragioni più profonde fanno pensare invece alla mancanza di prevenzione del crimine e a carenze nelle risposte istituzionali. Se davvero si volesse agire sulla microcriminalità e sulle organizzazioni criminali, pensiamo che le misure debbano essere altre, atte ad irrobustire una ancora troppo fragile rete di interventi. Risuonano ormai come un rimprovero le parole che il giudice Falcone disse, incontrando i ragazzi delle scuole di Palermo prima di essere barbaramente ucciso: «La cultura per la legalità è lo strumento essenziale per sconfiggere un giorno la mafia e le forme criminali. Non si può pensare che il compito di lottare contro la criminalità possa essere delegato solo alla forma repressiva». O ancora quelle di Peppino Impastato: «…bisognerebbe ricordare alla gente cos'è la bellezza, aiutarla a riconoscerla, a difenderla. La bellezza, è importante la bellezza, da quella scende giù tutto il resto».[4]

In carcere ci sono uomini e donne detenuti, perché hanno commesso un reato o perché posti

 in custodia cautelare in seguito ad una precisa imputazione, ma c’è da rilevare che gli ultimi strumenti legislativi, pensati come deterrenti di reati condizionati da forme di disagio, hanno di fatto inasprito le pene e, conseguentemente all’aumento delle recidive, anche le condizioni di speranza dei detenuti[5]. E così con Alessandro Margara, controverso magistrato di sorveglianza noto per il suo impegno verso l’emancipazione del carcere in prospettiva vivibile, possiamo osservare che la crescita dell'area della detenzione è frutto della crescita dell'area della detenzione sociale, come se il carcere fosse una sorta di contenitore di chi vive già ai margini[6]. Ma anche che la devianza si produce come specchio a forme di legalità decise da poteri non sempre rappresentativi in senso democratico, piuttosto che a forme di legittimazione di regole condivise.

Vengono rappresentate, cioè, nella forma di reato azioni dovute ad attivismo politico, a dissenso, ad espressioni di ribellioni contro la mancanza di case, le discariche, la disoccupazione, l’assenza di adeguate strutture sanitarie, la decadenza della scuola pubblica, il peggioramento delle condizioni di lavoro. I procedimenti penali che ne scaturiscono sono, in effetti, la conseguenza di un conflitto sociale ridotto a questione di ordine pubblico. “Terremotati, pastori, disoccupati, studenti, lavoratori, sindacalisti, occupanti di case si trovano a fare i conti con pestaggi, denunce e schedature di massa”[7]. Il deprecato sovraffollamento delle carceri è anche la conseguenza di questa gestione dell’ordine pubblico. 

E paradossalmente questa sperequazione tra idea affermata dall’art. 27 della Costituzione e prassi quotidiana si consuma proprio in una istituzione totale come il carcere, cioè laddove si concentra, emarginandola ulteriormente, la marginalità sociale.

Con questo lavoro pertanto vorrei offrire un contributo al superamento di luoghi comuni, oltre le polemiche tra certezza della pena e garanzia di sicurezza, verso una realtà  rimasta ai margini della società civile come gli uomini, le donne e finanche i tanti bambini costretti ad una quotidianità che nella maggioranza dei casi non offre alcun riscatto. D’altra parte, bisogna mettere in conto, come ci ricorda Foucault[8], che la soluzione detentiva venne adottata solo nel XVIII secolo, per effetto di un potere costituito che prevedeva un maggiore controllo sulle coscienze. Un controllo che Bentham ha rappresentato in forma architettonica con il suo panopticon.

Il tipo di approccio, pertanto, è ideografico, ovvero centrato sulla comprensione in forma dialettica e interdisciplinare, non della reclusione e delle sue cause, ma di quell’orizzonte che rende il soggetto-uomo un recluso e nel quale si proietta una domanda di senso, una ricerca di significati, che valorizzino e confermino l’attualità della Costituzione italiana e delle Leggi che regolano la vita dei detenuti.

Laddove non c’è libertà, l’uomo non ha possibilità di portare a compimento alcun progetto, tanto meno quello riferito al proprio esistere nel mondo.

È una libertà “indicibile” dal punto di vista sociologico, che nel carcere non trova parole per essere definita o, meglio, raccontata, sconosciuta agli stessi soggetti che la leggono priva di eticità, disancorata dalla persona umana, quanto soggetta al dominio dei mercati.

Occupandomi di volontariato da sempre, entrare in carcere è stata un’esperienza che mi ha temprato e convinto che l’azione formativa e didattica sia inutile se non mira al recupero dei cosiddetti “ragazzi difficili” con l’obiettivo di spezzare quel circolo vizioso che li proietta con troppa facilità ad intraprendere la strada della criminalità. Questo testo è dedicato a loro, a quei ragazzi che incontro sempre più spesso nella scuola pubblica, privi di motivazioni allo studio, esuberanti nei comportamenti fino al bullismo e all’abbandono scolastico, pervasi da quel disagio che Umberto Galimberti, rifacendosi al nichilismo nietzscheiano, ha individuato come “ospite inquietante” (2007). Un filo rosso insegue il destino di questi studenti, collegandoli idealmente ai tanti ragazzi appena maggiorenni o ormai adulti che ho incontrato come detenuti per aver essi abbracciato strade dove riconoscimento, senso d’appartenenza e potere sembrano più facilmente raggiungibili. Forse spezzare questo filo non è semplice, ma trovarne i gangli che ne disinnescano la potenzialità dal punto di vista culturale, politico, economico, è almeno uno degli obiettivi che come cittadini attivi dovremmo proporci.

Ho guardato con occhi nuovi verso un mondo che, senza avvedermene prima, non è poi così lontano da me. In carcere non ci sono detenuti, viene ristretta quella parte della società che non riusciamo ad integrare né a comprendere. Ogni tentativo educativo viene continuamente messo in crisi dalle problematicità legate al mondo carcerario, laddove si registrano suicidi, diritti alienati, abusi e violenze tali da far dimenticare che l’asprezza della pena dipende invece da un atto giuridico, legale e legittimo.

In questo lavoro, pertanto, ho cercato di presentare gli aspetti teorici e di forte impronta pragmatica che motivano, nonostante i fallimenti, gli interventi di integrazione socio-culturale e lavorativa a favore dei detenuti. 

 



[1] Firmato il 26 giugno 2003, è possibile reperirlo anche da http://www.ristretti.it/areestudio/giuridici/intese/calabria.htm

[2] Vedi G. D. Colazzo, La devianza tra i devianti. I valori, le norme di una comunità carceraria e la loro trasgressione, Tesi di laurea in http://www.zeromandate.org/index.php/tesi/1-la-devianza-tra-i-devianti-i-valori-le-norme-di-una-comunita-carceraria-e-la-loro-trasgressione, Università degli Studi di Torino Facoltà di Scienze Politiche Corso di laurea in Scienze Politiche, Torino 2005, p. 28

[3] www. Vita.it, nell’articolo “Indulto, i dati aggiornati: il 22% è tornato in carcere” del 21 settembre 2007 si legge:

Sono 26.752 i detenuti usciti fino ad oggi dal carcere grazie all'indulto. Di questi, circa il 22% (per l'esattezza 6.194, di cui 4.318 italiani) sono finiti di nuovo in cella per essere tornati a delinquere. Ciò non significa però - fa notare il Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria che in occasione della festa della polizia penitenziaria a Napoli ha reso noti oggi i dati aggiornati al 18 settembre - che il tasso di recidiva sia aumentato dopo l'indulto: il tasso era infatti al 44% prima dell'approvazione dell'atto di clemenza del 31 luglio del 2006, mentre ora è al 42%.

Attualmente nelle carceri italiane ci sono 46.118 detenuti di cui i definitivi sono 17.369, quelli in attesa di primo giudizio 15.718, mentre il resto si suddivide tra appellanti (8.952), ricorrenti (2.632) e internati (1.447). Grazie all'indulto le sovraffollate carceri italiane (i detenuti erano arrivati a sforare quota 60 mila nel luglio del 2006) hanno respirato una boccata d'ossigeno che, però, sembra durata solo un anno: i dati del Dap mostrano, infatti, che dai 38.847 detenuti dell'agosto 2006 (vale a dire subito dopo il varo dell'atto di clemenza) si è arrivati nel giro di un anno a 46.118, mentre la capienza regolamentare degli istituti penitenziari è di 43.140 posti. Su 26.752 'indultati', il 69,2% è rappresentato dai condannati in via definitiva, l'1,8% da coloro che erano in attesa di primo giudizio, il 5,9% da appellanti, il 3% da ricorrenti, e il 20,1% da detenuti con più procedimenti a carico. Dei 6.194 detenuti che, una volta aver beneficiato dell'indulto, hanno fatto rientro in carcere, la maggior parte (4.939), sono persone nuovamente arrestate in flagranza di reato, mentre 1.190 per provvedimenti dell'autorità giudiziaria.

[4] I cento passi, film italiano,  regia di Marco Tullio Giordana, 2000

[5] I tre interventi legislativi della la Bossi-Fini, della ex Cirielli, della Fini-Giovanardi hanno provocato un’accelerazione nei fenomeni della detenzione. La Bossi-Fini (che aveva introdotto tra l’altro il reato di clandestinità) è del 2002 ma la sua applicazione ha dato “il botto finale” nel 2005: gli ingressi nel corso del 2005 di detenuti nelle carceri italiane sono aumentati da 82.275 (nel 2004) a 89.887, ma gli ingressi degli italiani sono diminuiti, “mentre gli stranieri spiegano da soli l’aumento complessivo” (da 32.249 sono saliti a 40.606). Il reato penale di clandestinità è stato abrogato  il 2 aprile 2014 con il disegno di legge “in materia di pene detentive non carcerarie”. La ex Cirielli ha un duplice effetto. Da un lato, riduce per i recidivi l’applicazione della legge Simeone (cioè la sospensione dell’esecuzione della pena in attesa di misura alternativa) e quindi, aumenta le entrate in carcere, dall’altro lato, sempre per i recidivi esclude o ritarda l’applicazione delle misure alternative e, quindi, diminuisce le uscite. La Fini-Giovanardi, “varata in modo indecente ricorrendo ad un decreto legge di cui non ricorrevano i presupposti e blindata con la fiducia nella fase di conversione in legge”, equiparando le droghe leggere alle droghe pesanti, ha di fatto penalizzato “una parte importante di chi usa stupefacenti e che in precedenza veniva soltanto segnalato alle prefetture”.

[6] Cfr. A. Margara, Conformazione della pena e dei suoi effetti ai principi costituzionali, in http://www.ristretti.it/convegni/lavoro/articolato.htm; Quale pena (recensione) in L’altro diritto. Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità, http://www.altrodiritto.unifi.it/document/qualpena.htm.

[7] https://insorgenze.wordpress.com/category/emergenza-e-stato-di-eccezione/

[8] M. Foucault, Antologia. Impazienza della libertà, a cura di Vincenzo Sorrentino, Intervista con Madeleine Chapsal, Feltrinelli Editore, Milano 2005, p. 84

 


1. Inclusività versus rieducazione

 

Astratto è il “cuore umano” ed è la nostra ricerca, che

vuole legare l’uomo alla scienza,

alle sue scoperte, al suo mondo, che è concreta.

Michel Foucault[1]

 

Detenuti si diventa. Ma le condizioni non sono fortuite, lo sono solo per coloro che si ritrovano al di là dei cancelli, senza la consapevolezza della scelta che è andata a frantumare i dettami di legalità costruiti dalla legislazione. I reati commessi sono per lo più conseguenze di abitudini e appartenenze a sottogruppi sociali, di convinzioni proprie di realtà emarginate. E così, nonostante non lo abbia mai chiesto, ciascuno di loro ci tiene a dichiararsi innocente. Alcuni lo affermano per una sorta di captatio benevolentiae verso una volontaria che è lì per condividere con il gruppo spazi e tempi resi disponibili dall’amministrazione carceraria, e cercano di addurre situazioni spiacevoli delle quali si sono ritrovati, loro malgrado, responsabili; altri sembrano crederci veramente. C’è voluto un po’ di tempo per realizzare come il senso d’innocenza trovasse ogni spiegazione plausibile all’interno di una cornice di valori, modelli culturali, che cadono nella zona d’ombra dell’illegalità, dove non esistono rispetto della persona umana, nel senso universale del termine, e dialogo, né tanto meno cura di sé o riconoscimento dell’altro come proprio simile, ma dove si compie con successo ed efficacia un’azione formativa funzionale al mantenimento di quello stesso modello[2].

Detenuti si diventa. Tutti coloro che ho incontrato hanno dovuto attraversare le fasi della crescita e confrontarsi con il gruppo dei pari e degli adulti, confrontarsi con le istituzioni scolastiche, la didattica e gl’insegnanti. E la scuola, in questi casi, ha fatto cilecca. Non si è saputa misurare con le biografie di ciascuno. E per gli stranieri la detenzione esprime più radicalmente una condizione sociale inversamente proporzionale alla loro integrazione.

Detenuti si diventa. Anche qualora si pensasse, sulla base di teorie neopositivistiche di tipo lombrosiano, ad una determinazione genetica dei comportamenti antisociali, il reato si potrebbe comunque prevenire in tempo con interventi mirati e sistematici anche in quei casi estremi dove predominano aspetti patologici.

Proprio perché detenuti si diventa, la formazione dell’uomo e del cittadino ha ancora una sua ragione d’essere perseguita, e la prevenzione dovrebbe avere un maggiore impulso. Dalle carceri, tornate nuovamente a livelli di sovraffollamento oltre misura, si alza la domanda necessaria quanto inquietante: “Come fare per evitare di entrare in quelle zone d’ombra che prima o poi portano alla detenzione?”. Una società civile può ridurre gli eventi criminali, le associazioni a delinquere, l’uso e lo spaccio di droghe, la violenza di una persona verso un’altra?

Domande che ritornano prepotenti e impediscono atteggiamenti di pietismo – ma non di ascolto – di riduzione in categorie della vita che scorre ristretta senza che per questo diventi “esistenza-lampo” o “vita-poema” nei termini di Focault (che è comunque riuscito a spiegarci come i termini della nostra attenzione verso quelle vite sia dettata dal rapporto con il potere). Il racconto di ciascuna esistenza, se rimane fermo all’iscrizione nei registri del potere determina, segna, individua, una vita congelata nel reato. Riduce la persona umana al reato commesso e così in relazione all’inchiesta, alla sentenza, alla punizione ogni vita si rivela “infima”, come la descrisse lo stesso Focault, che per quanto registri metamorfosi e continuità nella politica dell’esclusione e nella produzione sociale dell’infamia[3], lascia fuori percezioni, sentimenti, competenze capaci di esprimere le dinamiche di una persona umana anche in situazioni di illibertà.

In questo contesto, vorrei pertanto sollecitare l’attenzione verso l’umanità del detenuto, le sue potenzialità ad esprimersi come persona, la possibilità di oltrepassare le soglie del reato stesso evidenziando pregiudizi sociali, da un lato, e risorse pedagogiche, dall’altro. Come insegnante di sostegno nelle scuole superiori, ho imparato ad accogliere la diversa abilità di giovani studenti che mi venivano affidati mettendo in conto, ogni volta, quanto fosse difficile impostare una comunicazione fondata su diritti acquisiti e sul rispetto della normativa vigente con il consiglio di classe e con la scuola stessa, dove ancora si creano situazioni di emarginazioni. Anche in carcere, laddove non viene rispettato l’art. 27 della Costituzione e le leggi che ne sono scaturite, prevalgono aspetti disumanizzanti che inducono chi è ristretto a comportamenti autolesionistici e finanche al suicidio. Una volta esaurita la spinta caritatevole dell’indulto richiesto nel 2000 da Papa Giovanni Paolo II, in questi ultimi anni ritorna con sempre più enfasi il richiamo all’art. 27 della Costituzione. Un confronto che le condizioni dure del carcere, dettate da nuovo sovraffollamento e dai tanti, troppi, episodi di suicidio e autolesionismo, esigono. Il fenomeno della recidiva, d’altra parte, non è stato contenuto da strategie sociali né da un welfare capace di limitare la delinquenza comune.

Perché il reinserimento si realizzi davvero la società deve fare la sua parte, anche attraverso interventi delle istituzioni e delle amministrazioni locali. Non basta semplicemente che ci sia una ricettività del territorio, che ci sia il lavoro, ma ci vuole un’attenzione complessiva verso le persone che provengono dall’esperienza della detenzione.

Detenuti si diventa, ma la formazione dell’uomo è continua e può puntare al reinserimento socio-lavorativo, non per un semplice obiettivo buonista, quanto per restituire sicurezza e fiducia nella vita sociale di ogni cittadino. Reinserimento vuol dire riportare al centro del discorso educativo la persona umana e proprio per quanto già detto non posso non accogliere le spinte provenienti da studi sulla pedagogia della marginalità, contrari a pratiche rieducative che non accolgono il vissuto, la storia, le proiezioni progettuali del detenuto, facendo invece prevalere convenzioni e modelli asfittici. L’inclusività deve invece rigenerarsi entro nuovi spazi di condivisione, laddove è possibile accendere sentimenti ed emozioni e, nello stesso tempo, comunicarne l’intensità in nuove forme significative di logos etico[4]. L’inclusività non è una relazione a senso unico, in quanto viene sostenuta da processi di negoziazione tra i soggetti interessati, che si confrontano in un continuum di revisione e riformulazione delle certezze nel rispetto delle differenze, al di là di retoriche moralistiche. Un contesto in cui si promuove consapevolezza del sé, interiorizzazione di positività e nuove capacità di rielaborazione delle conoscenze: la messa in opera, in definitiva, da parte del soggetto stesso, di intenzionalità e sistemi di autocontrollo.

L’ingerenza umanitaria  cui accennavo prima comprende una serie di interventi d’attuazione della legislazione vigente e di attitudini degli operatori e del personale carcerario, che pongono in essere quelle pratiche di libertà di cui parlava Foucault mantenendone tutta la problematicità. Fondamento di una tale “ingerenza”, l’a priori pedagogico della cura che si realizza nell’accoglienza e nella responsabilità ad accogliere e promuovere lo stesso desiderio di realizzare il personale progetto di vita.

 

La cura è, dunque, per la relazione pedagogica, categoria fondante e paradigma pratico, teorico ed etico, in base al quale è possibile legare i destini collettivi dell’intersoggettività a un reciproco sviluppo ricorsivo: in cui ciascuno pone nella cura dell’altro già sempre la cura di sé e, viceversa, nella cura di sé già sempre la cura dell’altro[5].  

 

L’apporto pedagogico nei processi di individualizzazione e identificazione nella dimensione carceraria divengono una vera e propria sfida per la persistenza di una routine ferraginosa e fortemente invasiva. L’operatore volontario che riesce ad entrare in contatto con i detenuti[6] deve innanzitutto affrontare diffidenza e comportamenti oppositivi, una sorta di disfattismo fatto di atteggiamenti passivi, rinunciatari, pessimistici e addirittura provocatori o di vittimismo. La situazione diventa ancora più difficile, quando s’inserisce in gruppi in cui predominano relazioni gerarchiche di subordinazione. A questo proposito mi sembra si possa in modo opportuno ribadire anche per la situazione carceraria quanto afferma Salmieri:

 

Il modo più facile ed immediato per sottrarsi alla responsabilità educativa personale è quello di appellarsi alle carenze strutturali, all’autorità incompetente o all’obbedienza a direttive inadeguate. Si negano in tal modo l’azione, l’intenzione, la volontà e la scelta. Chi sceglie tuttavia di operare e di lavorare con il disagio e con la differenza è investito di una responsabilità etica maggiore, che non significa spirito missionario o vacazione al sacrificio, ma più elevata professionalità e più qualificata attenzione alla dialogicità e allo scambio, sempre problematicamente aperto e quindi inesauribile. Il confronto con il disagio e con la differenza trasforma l’educatore in un operatore dell’impossibile in un mondo che ha fatto dell’ovvio, del prosaico, del banale e dell’immediatamente percepibile e consumabile l’unica sua dimensione[7].

 

In questo contesto i modelli di efficienza ed efficacia, divieti e sanzioni, porterebbero solo ad un fallimento nella comunicazione, che invece deve vibrare di pathos, portando al centro del dialogo la carica emotiva, le tensioni, la certezza di essere ascoltati. Nel riequilibrare le componenti conoscitive, emotive, relazionali del soggetto che diventa protagonista del proprio percorso di ri-significazione dell’esistente, l’educatore assume una funzione di tutor o di facilitatore; rinforza così in ciascun componente del gruppo aspetti residuali di autostima, sforzo all’impegno e al superamento di frustrazioni, disponibilità al cambiamento. Deve insomma creare situazioni di discontinuità tali da recuperare la legittimazione di percorsi alternativi ai fenomeni trasgressivi, di violenza, fuori dai circuiti della legalità e del diritto.



[1] M. Foucault, Antologia. Impazienza della libertà, op. cit., p. 40

[2] P. Bertolini - L.Caronia, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento, La Nuova Italia, Firenze 1993, pp. 19-20

[3] Foucault Michel, La vita degli uomini infami, Il Mulino 2009

[4] A. Gramigna – M. Rigetti, …Svegliandomi mi sono trovato ai margini. Per una pedagogia della marginalità. Bologna, Clueb, 2001, pp. 113-117

[5] G. Annacontini, Lo sguardo e la parola. Etnografia, cura e formazione, Progedi, Bari 2006, p. 161

[6] Il Regolamento dell’Ordinamento penitenziario prevede due forme di partecipazione del volontariato, disciplinate dagli artt. 17 e 78 che inquadrano rispettivamente le figure di volontario della comunità esterna (art.17 O.p., 63 R.e.) e assistente volontario (art.78 O.p., 107 R.e.)

[7] S. Salmieri, Nuovi modelli di integrazione: la categoria della differenza, in Studi sulla formazione (rivista), Firenze University Press, Anno XI, 1-2008, p. 135

 

 

Detenuti si diventa. Ma le condizioni non sono fortuite, lo sono solo per coloro che si ritrovano al di là dei cancelli, senza la consapevolezza della scelta che è andata a frantumare i dettami di legalità costruiti dalla legislazione. I reati commessi sono per lo più conseguenze di abitudini e appartenenze a sottogruppi sociali, di convinzioni proprie di realtà emarginate. E così, nonostante non lo abbia mai chiesto, ciascuno di loro ci tiene a dichiararsi innocente. Alcuni lo affermano per una sorta di captatio benevolentiae verso una volontaria che è lì per condividere con il gruppo spazi e tempi resi disponibili dall’amministrazione carceraria, e cercano di addurre situazioni spiacevoli delle quali si sono ritrovati, loro malgrado, responsabili; altri sembrano crederci veramente. C’è voluto un po’ di tempo per realizzare come il senso d’innocenza trovasse ogni spiegazione plausibile all’interno di una cornice di valori, modelli culturali, che cadono nella zona d’ombra dell’illegalità, dove non esistono rispetto della persona umana, nel senso universale del termine, e dialogo, né tanto meno cura di sé o riconoscimento dell’altro come proprio simile, ma dove si compie con successo ed efficacia un’azione formativa funzionale al mantenimento di quello stesso modello[2].

 

Detenuti si diventa. Tutti coloro che ho incontrato hanno dovuto attraversare le fasi della crescita e confrontarsi con il gruppo dei pari e degli adulti, confrontarsi con le istituzioni scolastiche, la didattica e gl’insegnanti. E la scuola, in questi casi, ha fatto cilecca. Non si è saputa misurare con le biografie di ciascuno. E per gli stranieri la detenzione esprime più radicalmente una condizione sociale inversamente proporzionale alla loro integrazione.

 

Detenuti si diventa. Anche qualora si pensasse, sulla base di teorie neopositivistiche di tipo lombrosiano, ad una determinazione genetica dei comportamenti antisociali, il reato si potrebbe comunque prevenire in tempo con interventi mirati e sistematici anche in quei casi estremi dove predominano aspetti patologici.

 

Proprio perché detenuti si diventa, la formazione dell’uomo e del cittadino ha ancora una sua ragione d’essere perseguita, e la prevenzione dovrebbe avere un maggiore impulso. Dalle carceri, tornate nuovamente a livelli di sovraffollamento oltre misura, si alza la domanda necessaria quanto inquietante: “Come fare per evitare di entrare in quelle zone d’ombra che prima o poi portano alla detenzione?”. Una società civile può ridurre gli eventi criminali, le associazioni a delinquere, l’uso e lo spaccio di droghe, la violenza di una persona verso un’altra?

 

Domande che ritornano prepotenti e impediscono atteggiamenti di pietismo – ma non di ascolto – di riduzione in categorie della vita che scorre ristretta senza che per questo diventi “esistenza-lampo” o “vita-poema” nei termini di Focault (che è comunque riuscito a spiegarci come i termini della nostra attenzione verso quelle vite sia dettata dal rapporto con il potere). Il racconto di ciascuna esistenza, se rimane fermo all’iscrizione nei registri del potere determina, segna, individua, una vita congelata nel reato. Riduce la persona umana al reato commesso e così in relazione all’inchiesta, alla sentenza, alla punizione ogni vita si rivela “infima”, come la descrisse lo stesso Focault, che per quanto registri metamorfosi e continuità nella politica dell’esclusione e nella produzione sociale dell’infamia[3], lascia fuori percezioni, sentimenti, competenze capaci di esprimere le dinamiche di una persona umana anche in situazioni di illibertà.

 

In questo contesto, vorrei pertanto sollecitare l’attenzione verso l’umanità del detenuto, le sue potenzialità ad esprimersi come persona, la possibilità di oltrepassare le soglie del reato stesso evidenziando pregiudizi sociali, da un lato, e risorse pedagogiche, dall’altro. Come insegnante di sostegno nelle scuole superiori, ho imparato ad accogliere la diversa abilità di giovani studenti che mi venivano affidati mettendo in conto, ogni volta, quanto fosse difficile impostare una comunicazione fondata su diritti acquisiti e sul rispetto della normativa vigente con il consiglio di classe e con la scuola stessa, dove ancora si creano situazioni di emarginazioni. Anche in carcere, laddove non viene rispettato l’art. 27 della Costituzione e le leggi che ne sono scaturite, prevalgono aspetti disumanizzanti che inducono chi è ristretto a comportamenti autolesionistici e finanche al suicidio. Una volta esaurita la spinta caritatevole dell’indulto richiesto nel 2000 da Papa Giovanni Paolo II, in questi ultimi anni ritorna con sempre più enfasi il richiamo all’art. 27 della Costituzione. Un confronto che le condizioni dure del carcere, dettate da nuovo sovraffollamento e dai tanti, troppi, episodi di suicidio e autolesionismo, esigono. Il fenomeno della recidiva, d’altra parte, non è stato contenuto da strategie sociali né da un welfare capace di limitare la delinquenza comune.

 

Perché il reinserimento si realizzi davvero la società deve fare la sua parte, anche attraverso interventi delle istituzioni e delle amministrazioni locali. Non basta semplicemente che ci sia una ricettività del territorio, che ci sia il lavoro, ma ci vuole un’attenzione complessiva verso le persone che provengono dall’esperienza della detenzione.

 

Detenuti si diventa, ma la formazione dell’uomo è continua e può puntare al reinserimento socio-lavorativo, non per un semplice obiettivo buonista, quanto per restituire sicurezza e fiducia nella vita sociale di ogni cittadino. Reinserimento vuol dire riportare al centro del discorso educativo la persona umana e proprio per quanto già detto non posso non accogliere le spinte provenienti da studi sulla pedagogia della marginalità, contrari a pratiche rieducative che non accolgono il vissuto, la storia, le proiezioni progettuali del detenuto, facendo invece prevalere convenzioni e modelli asfittici. L’inclusività deve invece rigenerarsi entro nuovi spazi di condivisione, laddove è possibile accendere sentimenti ed emozioni e, nello stesso tempo, comunicarne l’intensità in nuove forme significative di logos etico[4]. L’inclusività non è una relazione a senso unico, in quanto viene sostenuta da processi di negoziazione tra i soggetti interessati, che si confrontano in un continuum di revisione e riformulazione delle certezze nel rispetto delle differenze, al di là di retoriche moralistiche. Un contesto in cui si promuove consapevolezza del sé, interiorizzazione di positività e nuove capacità di rielaborazione delle conoscenze: la messa in opera, in definitiva, da parte del soggetto stesso, di intenzionalità e sistemi di autocontrollo.

 

L’ingerenza umanitaria  cui accennavo prima comprende una serie di interventi d’attuazione della legislazione vigente e di attitudini degli operatori e del personale carcerario, che pongono in essere quelle pratiche di libertà di cui parlava Foucault mantenendone tutta la problematicità. Fondamento di una tale “ingerenza”, l’a priori pedagogico della cura che si realizza nell’accoglienza e nella responsabilità ad accogliere e promuovere lo stesso desiderio di realizzare il personale progetto di vita.

 

La cura è, dunque, per la relazione pedagogica, categoria fondante e paradigma pratico, teorico ed etico, in base al quale è possibile legare i destini collettivi dell’intersoggettività a un reciproco sviluppo ricorsivo: in cui ciascuno pone nella cura dell’altro già sempre la cura di sé e, viceversa, nella cura di sé già sempre la cura dell’altro[5].  

 

L’apporto pedagogico nei processi di individualizzazione e identificazione nella dimensione carceraria divengono una vera e propria sfida per la persistenza di una routine ferraginosa e fortemente invasiva. L’operatore volontario che riesce ad entrare in contatto con i detenuti[6] deve innanzitutto affrontare diffidenza e comportamenti oppositivi, una sorta di disfattismo fatto di atteggiamenti passivi, rinunciatari, pessimistici e addirittura provocatori o di vittimismo. La situazione diventa ancora più difficile, quando s’inserisce in gruppi in cui predominano relazioni gerarchiche di subordinazione. A questo proposito mi sembra si possa in modo opportuno ribadire anche per la situazione carceraria quanto afferma Salmieri:

 

Il modo più facile ed immediato per sottrarsi alla responsabilità educativa personale è quello di appellarsi alle carenze strutturali, all’autorità incompetente o all’obbedienza a direttive inadeguate. Si negano in tal modo l’azione, l’intenzione, la volontà e la scelta. Chi sceglie tuttavia di operare e di lavorare con il disagio e con la differenza è investito di una responsabilità etica maggiore, che non significa spirito missionario o vacazione al sacrificio, ma più elevata professionalità e più qualificata attenzione alla dialogicità e allo scambio, sempre problematicamente aperto e quindi inesauribile. Il confronto con il disagio e con la differenza trasforma l’educatore in un operatore dell’impossibile in un mondo che ha fatto dell’ovvio, del prosaico, del banale e dell’immediatamente percepibile e consumabile l’unica sua dimensione[7].

 

 

 

In questo contesto i modelli di efficienza ed efficacia, divieti e sanzioni, porterebbero solo ad un fallimento nella comunicazione, che invece deve vibrare di pathos, portando al centro del dialogo la carica emotiva, le tensioni, la certezza di essere ascoltati. Nel riequilibrare le componenti conoscitive, emotive, relazionali del soggetto che diventa protagonista del proprio percorso di ri-significazione dell’esistente, l’educatore assume una funzione di tutor o di facilitatore; rinforza così in ciascun componente del gruppo aspetti residuali di autostima, sforzo all’impegno e al superamento di frustrazioni, disponibilità al cambiamento. Deve insomma creare situazioni di discontinuità tali da recuperare la legittimazione di percorsi alternativi ai fenomeni trasgressivi, di violenza, fuori dai circuiti della legalità e del diritto.

 



[1] M. Foucault, Antologia. Impazienza della libertà, op. cit., p. 40

[2] P. Bertolini - L.Caronia, Ragazzi difficili. Pedagogia interpretativa e linee di intervento, La Nuova Italia, Firenze 1993, pp. 19-20

[3] Foucault Michel, La vita degli uomini infami, Il Mulino 2009

[4] A. Gramigna – M. Rigetti, …Svegliandomi mi sono trovato ai margini. Per una pedagogia della marginalità. Bologna, Clueb, 2001, pp. 113-117

[5] G. Annacontini, Lo sguardo e la parola. Etnografia, cura e formazione, Progedi, Bari 2006, p. 161

[6] Il Regolamento dell’Ordinamento penitenziario prevede due forme di partecipazione del volontariato, disciplinate dagli artt. 17 e 78 che inquadrano rispettivamente le figure di volontario della comunità esterna (art.17 O.p., 63 R.e.) e assistente volontario (art.78 O.p., 107 R.e.)

[7] S. Salmieri, Nuovi modelli di integrazione: la categoria della differenza, in Studi sulla formazione (rivista), Firenze University Press, Anno XI, 1-2008, p. 135

 

 1.1. I pregiudizi

 

Per quanto voi vi crediate assolti

siete per sempre coinvolti.

Fabrizio De André [1]

 

 

 

L’emarginazione del carcere non nasce sull’immediatezza di una scelta estemporanea, né su decisioni legislative ancorate a scelte politiche contestuali, quanto piuttosto poggia le sue fondamenta su una cultura che si è nutrita di ragione cartesiana e illuministica, laddove il trasgressivo e l’irriducibile vengono respinti in uno spazio controllato, accrescendo così pregiudizi e sentimenti negativi nei confronti di un luogo retto da argini. 

 

Conosciamo tutti gli inconvenienti della prigione, e come sia pericolosa, quando non è inutile. E tuttavia non vediamo con quale altra cosa sostituirla. Essa è la detestabile soluzione, di cui non si saprebbe fare a meno[2]

 

Si esprimeva così Michel Foucault in quel testo divenuto riferimento negli studi del settore, qual è Sorvegliare e punire.

 

Una soluzione, non l’unico percorso che, per quanto ci è dato sapere, si mantiene sul presupposto ipocrita della rieducazione mai attuabile perché, di fatto, elimina le persone “scomode” con strategie punitive che ricadono sulla formazione dell’identità del detenuto, ma che fa da garante morale in uno Stato che si ritiene “di diritto” e che proprio nel carcere afferma le sue più vistose contraddizioni[3].

 

L’attenzione verso questa realtà, per come è andata maturando negli ultimi anni, sia per gli scritti critici di Foucault che per la dimensione personalistica di cui si è tinta la cultura occidentale, non fa ancora pensare ad una “ingerenza” umanitaria che ne modifichi la struttura, ma ha per lo meno fatto avanzare dei dubbi sulla percezione che ne ha la gente comune. Volendo spingersi oltre una rappresentazione sociologica, o l’identificazione di “istituzione totale”, mantenuta dall’impedimento di scambio sociale verso l’esterno e da una funzione ben definita[4], spostiamo lo sguardo sulle esistenze che vi abitano in modo coercitivo lasciando tracce, segni, segnali, pensieri, materiali.  

 

La percezione del reato come aspetto prevalente della persona rivendica esplicitamente la presenza del carcere come luogo di vendetta sociale. Predominante risulta ancora una retorica securitaria legata a fenomeni di insicurezza; stati d’ansia e inquietudine si distribuiscono in modo non uniforme tra i vari strati della popolazione. Negli ultimi tempi sta maturando un nuovo concetto di giustizia “riparativa”  in cui dall’attenzione alla vittima con una mentalità risarcitoria si giunge ad un nuovo paradigma, che incontra ancora molte resistenze nel processo di umanizzazione della reclusione, filtrate da fenomeni di repressione crudele e di inibizioni ma che, puntando su un rinnovato interesse verso la vittima, guadagna nuovo credito e consenso politico sia in Europa che nell’area giuridica della common low. Seguendo una definizione accreditata, per giustizia riparativa s’intende quel modello di giustizia che coinvolge la vittima, il reo e la comunità nella ricerca di soluzioni agli effetti del conflitto generato dal fatto delittuoso, allo scopo di promuovere la riparazione del danno, la riconciliazione tra le parti ed il rafforzamento del senso di sicurezza collettivo[5].

 

In questa logica, l’istituzione totale viene frantumata in una relazione che tiene conto del suo peso distruttivo per il sé individuale, riconoscendone attitudini e potenzialità, la dignità di persona, su cui ricostruire il reinserimento sociale.

 

Ciascun detenuto porta con sé il proprio immaginario, i propri alfabeti, un’alterità che l’istituzione totale costringe a esprimersi come non-luogo. Collocato anche spazialmente ai margini, soffoca nella formalizzazione coatta ulteriori periferie di pensiero e paesaggi di degrado. Ai confini del disordine l’istituzione eleva l’ordine geometrico della forma a consuetudine senza senso, miope nel contenimento angosciante delle diversità.

 

D’altra parte, nell’ambito della pedagogia della devianza, sono stati individuati gli scenari dell’immaginario pedagogico sui quali si costruisce il rapporto educativo e/o comunicativo. Scenari declinati sul versante riparatorio, terapeutico, correzionale, che restituiscono i limiti di categorizzazioni inefficaci sul fronte della comprensione dei fenomeni devianti e marginali, perché ferme ad una concezione riabilitativa dell’educazione e non problematizzante[6].

 

 

 

 

1.2.  Vivere ai margini

 

Il margine ha un’origine concettuale, funzionale a logiche di potere. Rappresenta il diverso comprensibile solo a partire dal proprio sé. Nasce da una rappresentazione diadica tra il sé e il diverso. Ai margini viene posto ciò che non può assumere un significato rispetto ad un centro perché indefinibile, incolmabile, che provoca una lacerazione rispetto al centro. Con il carcere il margine è anche definibile spazialmente e l’opposizione diviene visibile, si distingue con limiti perimetrali[7]. La società occidentale si fonda su questa contrapposizione rappresentativa compresa come pregiudizio etnocentrico.

 

Dai testi illuminanti di Foucault sulla Storia della follia nell’età moderna e Sorvegliare e punire. Nascita della prigione (Torino, Einaudi, 1976) è emerso il potere di una ragione che, dal proprio punto di vista, ha definito i limiti della non-ragione, delimitato il non conosciuto, ciò che impaurisce, segregando geograficamente i portatori di un’alterità che non si vuole riconoscere. Il margine, infatti, racchiude l’altro da sé, il diverso, il non-io, ciò che non ha pieno significato, che è ai limiti dell’esperienza significativa. La stessa ragione, definendo i suoi limiti, ha costruito culturalmente “gli occhiali”, i modi della percezione di luoghi e direzioni, definendo anche l’orientamento e il disorientamento emotivo sulle identità e opposizioni; ma nello stesso tempo ha cercato delle mediazioni tra centro e margine nelle agenzie adibite al controllo sociale come la famiglia e la scuola. In senso ampio l’educazione ha il compito di strappare dal margine i marginali e portarli democraticamente vicino al centro. Funzione che nel tempo si è ridotta prevalentemente a politiche di reclusione/repressione piuttosto che al riscatto.

 

Se si parla di margine, facciamo riferimento con gli occhiali prestati dalla ragione etnocentrica al regno della disperazione, della negazione, della carenza di statuto sociale. Ne diamo in pratica una lettura di totale svalorizzazione, utilizzando metafore e concetti che racchiudono giudizi di valore negativi, ovvero assenza di significato. Il significato, permanendo in questa prospettiva, può essere recuperato solo avvicinando al centro.

 

Esiste una cartina dell’emarginazione: le periferie degradate, le favelas o comunas (Columbia), gli orfanotrofi, le carceri, i ghetti: luoghi non-luoghi pregnanti di significato ancora da disvelare. La percezione collettiva tende a negarne il significato e i contenuti considerando vuoto, caos, mancanza di senso la carica di un’abnorme e pericolosa emotività retta da regole, ideologie, identità non riconoscibili dal centro. Una sorta di rimozione che mette sulla bocca delle persone “normali” frasi come:

 

 

 

Se la sono voluta!

 

Chi sbaglia deve pagare.

 

Ci sono problemi più gravi da risolvere.

 

Non si parla mai delle vittime, ma troppo di detenuti.

 

Non c’è lavoro per i residenti, impossibile trovarlo per i detenuti.

 

La percezione collettiva che si riduce ad esclusione irrazionale o, al massimo, nella ricerca delle cause, perde di vista le persone e i luoghi della marginalità.

 

È sufficiente, allora, per risolvere il fenomeno della marginalità, ricercare le cause come da tradizione durkheimiana?

 

La ricerca delle cause può darci solo indicazioni di tipo conoscitivo e la corrispondenza, ad esempio, tra il crescere della marginalità di aree metropolitane e il formarsi di gruppi minoritari che rappresentano il malessere generale con atti di violenza. Possiamo comprendere gli ambiti a rischio per cui è possibile scivolare nella marginalità fino alle soglie della criminalità e oltre. Ma poi notiamo che più cerchiamo di definire e mantenere sotto controllo situazioni a rischio, più si creano aree incomprensibili (ad esempio, ragazzi di buona famiglia che in gangs taglieggiano i compagni di scuola) che per questa incomprensibilità agiscono dentro di noi come “scandalo”, come rottura di giudizi di senso comune, invitandoci a ripensare e rimettere in gioco le nostre prospettive.

 

Il pregiudizio etnocentrico si scopre quindi come modalità conoscitiva autoreferenziale arrogante, bigotta, chiusa ad ogni innovazione e curiosità; d’altra parte, è una pretesa semplicistica quella di voler ricondurre tutti alla normalità che potrebbe tradursi pericolosamente nel rischio inaccettabile della normalizzazione.

 

La considerazione del pregiudizio etnocentrico ci permette di avanzare un nuovo approccio, diverso da quello tradizionale, che considera, invece, la rieducazione e il reinserimento in base ad una normalità “ottimale”. L’approccio innovativo della pedagogia della marginalità tende a recuperare l’aspetto innovativo, creativo e le potenzialità delle marginalità, intese come tanti centri dai cui punti di vista il centro viene visto come marginale. È una prospettiva con un suo valore che, tuttavia, per rifuggire ai problemi insiti di nichilismo e relatività, deve necessariamente ancorarsi ai valori della persona umana e alla ricerca di senso, all’intenzionalità che caratterizza l’essere persona. In condizioni di fiducia e solidarietà la devianza, proveniente in larga maggioranza da svantaggi relazionali, può essere arginata e controllata attivando quel processo di resistenza interno alla distruzione e di capacità di costruzione che va sotto il nome di resilienza. In questa prospettiva non si ha nessuna pretesa di modificare l’uomo, quanto piuttosto quella di accompagnarlo ad acquisire consapevolezze e incontrare opportunità mancate, tali da indurlo a compiere scelte che invece potevano essere evitate.

 

È un concetto, quello della resilienza, di una portata eccezionale e forse ancora sottovalutato, perché mira a far emergere la parte “sana” della persona e non è un caso che il teorico che ne ha considerato il carattere dirompente a livello sociologico, Stefan Vanistendael, abbia ricorso proprio ad una metafora clinica per far comprendere il valore aggiunto di un criterio che punta a valorizzare le risorse di difesa e di recupero del disagio[8], mettendo in atto capacità di resistenza a forme di distruzione e preservare la propria integrità seppure in circostanze di crisi e difficoltà.

 

La strategia di costruzione e rafforzamento della resilienza modifica drasticamente le prospettive tradizionalmente seguite nella gestione del disagio e dell’emarginazione: piuttosto che indagare le carenze, le inadeguatezze, il disadattamento, la trascuratezza grave, la debolezza del carattere, vanno disegnati e realizzati i corrispondenti strumenti compensativi. Vanno cioè individuati gli eventuali elementi positivi sui quali far leva per rafforzare le capacità di resistenza e superare le difficoltà per dare una svolta alla vita dei ragazzi svantaggiati[9].

 

Il porsi del carcere come istituzione totale in cui le persone detenute vengono trascurate nei propri bisogni di salute e di autorealizzazione, di risignificazione della propria esistenza si traduce, invece, in altre forme di resistenza che consentano a chi è ristretto almeno la sopravvivenza. Se permane questo problema relativo alla mancanza di riconoscimento della persona umana e di cura del sé, il detenuto non potrebbe scegliere altre opzioni a quelle di soddisfacimento dei bisogni primari, i primi nella piramide di Maslow, né trovare motivazioni che lo spingano a forme di resilienza significativamente rilevanti dal punto di vista sociale e culturale. E purtroppo la cronaca quotidiana ci presenta suicidi, autolesionismi, violenze che allontanano l’idea di detenzione da quanto previsto nella Costituzione e, pertanto, anche da un’idea di civiltà. Il carcere è sempre più diventato lo spazio degli invisibili, dei negletti, degli abbandonati, il margine entro cui si consuma l’inumano tragico e il cinismo di abusi e pregiudizi.

 

Di fatto, non esiste una corrispondenza biunivoca tra la percezione della legalità vissuta nell’attuazione dell’Ordinamento carcerario (legge penitenziaria  354 del 1975) e l’ethos legislativo espresso dalla Carta costituzionale. La pressione alla conformità dei comportamenti e l’incombenza vissuta momento per momento dal regolamento producono un’estraneità tollerata dalla volontà di non cadere in punizioni. Il carcere è la pena “legale” per un delitto commesso (a differenza ad es. della condizione illegale di prigioniero sotto sequestro). I problemi tra etica e legalità in carcere sarebbero superati se si pensasse che l’Ordinamento sarebbe l’attuazione dell’art. 27 della Costituzione, che non si limita a disciplinare l’organizzazione delle carceri e l’attività che in essi si svolge, ma espressamente si riferisce ai diritti dei detenuti e alle garanzie degli stessi.  Eppure su questa normativa pesano 25 sentenze che hanno dichiarato costituzionalmente illegittime in tutto o in parte disposizioni della legge stessa, e non meno di 130 pronunce della Corte costituzionale che hanno avuto ad oggetto disposizioni di questa legge e delle leggi successive che la hanno modificata e integrata (dal 1978 al 2001).

 

Il rapporto etica-legalità si presenta naturalmente nel tipo di reato commesso, nella punibilità e quindi nella pena, secondo il dettato della Costituzione.

 

L’art. 27 ribadisce infatti che la pena non deve consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e deve tendere alla rieducazione del condannato. Non deve cioè consistere o esaurirsi in una vendetta collettiva, ma deve favorire il rientro del condannato nella società delle persone libere. La detenzione non è dunque semplice custodia, ma deve essere accompagnata da un “trattamento” che si attua principalmente servendosi dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive, nonché agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia (art. 15 legge penitenziaria). Seguendo lo “spirito” della legge, si può compiere il miracolo di adesione intenzionale alle regole condivise, la sua piena e personale legittimazione. Salvatore Di Ladro:

 

È nella legalità che si fonda il progetto politico di edificare mediante il primato delle norme – l’effettiva garanzia di una mediazione non violenta dei conflitti sociali; è la legalità che si pone come momento garantista che costringe anche l’apparato statale a sottoporsi all’osservanza delle regole […] la legge diventa una regola di condotta sentita come vincolante ed ottiene quel patto sociale che dà vita ad uno stato libero e democratico, capace di resistere a tempi di forte tensione[10].

 

La legalità, in definitiva, deve coniugarsi e affondare le sue radici nell’ethos; trova la sua primogenitura nel momento etico, perché diversamente, ovvero se venisse ridotta a mero strumento del potere dominante o a momento ideologico, tradirebbe se stessa. Eppure oggi assistiamo ad un deficit di percezione della legalità (monitoraggio ICVS sul fenomeno del crimine nei paesi sviluppati), mentre vengono istituite leggi sempre meno riconosciute dalla popolazione, in forte contrasto con l’esistenza e la sopravvivenza dei ceti più bassi. Inoltre, una legge come la ex Cirielli apre ad una diversità di risposte giuridiche atte a lambire non solo l’incertezza della pena, quanto una larga fascia di popolazione per i reati di microcriminalità.

Situazioni che denotano elementi di criticità su cui convergere una ricerca di senso collettiva e interdisciplinare, scevra da pregiudizi, in cui collocare anche l’azione pedagogica.



[1]F. De Andrè, Nella mia ora di libertà, da Storia di un impiegato, 1973

[2] M. Foucault, Sorvegliare e punire, trad. it. di A. Tarchetti , Einaudi, Torino 1976, p. 79

[3] Per uno studio critico sulla questione vedi F. Garreffa, Per una storia sociale della reclusione, Working Paper Dipartimento di Sociologia UniCal, n. 74, 2010

[4] E. Goffman, Asylums. Le istituzioni totali: i meccanismi dell’esclusione e della violenza, Edizioni di Comunità, Torino, 2001, p. 34. La definizione di istituzione “totale” sta a significare una chiusura verso le innovazioni e i mutamenti nella distribuzione delle autorità e delle responsabilità con il conseguente mantenimento della gerarchia di potere e dell’organizzazione burocratica. Si praticano, pertanto, tutte quelle strategie che reificano e mantengono gli “interessi del sistema”. Seguendo questa logica, un’istituzione si definisce totale se ogni attività si svolge nello stesso luogo e sotto la stessa autorità; se gli individui si trovano a svolgere quotidianamente delle attività per gruppi numerosi, sotto stretta sorveglianza da parte dello staff; se c’è un sistema di regole ferree e ripetitive che scandiscono le varie attività e ciò comporta una standardizzazione  comportamentale; se lo svolgimento di tali attività è diretto al perseguimento dello scopo ufficiale dell’istituzione (Cfr. per una sintesi la tesi di laurea in Scienze Politiche, Università di Torino, a.a. 2004-05, di Giuseppe Colazzo “La devianza tra i devianti. I valori, le norme di una comunità carceraria e la loro trasgressione” in http://www.zeromandate.org/index.php/tesi/1-la-devianza-tra-i-devianti-i-valori-le-norme-di-una-comunita-carceraria-e-la-loro-trasgressione.

[5] cfr. A. Ceretti – F. Di Ciò, Giustizia riparativa e mediazione penale a Milano. Un’indagine quantitativa e qualitativa, in Rassegna penitenziaria e criminologica, n. 3, 2002, p. 100

[6] Cfr. P. Barone, Pedagogia della marginalità e della devianza, Guerini Studio, Milano 2001, pp. 93-94

[7] A. Gramigna – M. Minghetti, …Svegliandomi mi son trovato ai margini. Per una pedagogia della marginalità, op. cit., pp. 15-16

[8] M. Cavallo, Ragazzi senza, Bruno Mondatori, Milano 2002, pp. 132-134 facendo riferimento soprattutto alla prevenzione dei cosiddetti “ragazzi difficili”.

[9] M. Cavallo, Ragazzi senza, op. cit., pp. 133-134

[10] S. Di Ladro, avvocato generale presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria, Legalità-Sicurezza-Sviluppo. Etica e dimensione della legalità nel contesto culturale italiano in Legalità, sicurezza e sviluppo. Una comune strategia delle Istituzioni – Atti Convegno Villaggio Mancuso Taverna (CZ) 4-5- ottobre 2002 – Regione Calabria – Assessorato Regionale alla P. I. e Cultura – Comitato Regionale Permanente per l’Educazione alla legalità, pp. 20-21


 

2. Oltre l’omologazione il recupero della creatività

 

Amo ciò che di tenace

ancora sopravvive nei miei occhi,

nelle mie camere abbandonate

dove abita la luna,

e ragni di mia proprietà,

e distruzioni che mi sono care,

adoro il mio essere perduto,

la mia sostanza imperfetta.

Pablo Neruda

 

Occorre dunque muoversi oltre “l’ostacolo epistemologico” di Bachelard e creare una rottura tra linguaggio scientifico e pensiero comune, per recuperare il senso della persona nella propria irripetibilità, al limite dell’indicibilità (Foucault) e quindi il soggetto prima di tutto, come essere significante. Dal punto di vista pedagogico, rifiutare il pregiudizio antropologico vuol dire pensare al relativismo della marginalità (basta pensare al “barbone”, al “disabile”, al “vecchio”), avvicinarsi all’altro con le capacità di ascolto, accogliere il divario fra conoscenza e realtà entro la quale si configura un’incertezza (ontologica) che è fonte inesauribile di creatività. Riconoscere, insomma, percorsi esistenziali alternativi.

 

In questo contesto parlare di “rieducazione” risulta arrogante e senza senso, mentre invece si aprono altre possibilità di incontro facendo emergere quegli spazi, rendendoli intelligibili e orientandoli verso un progetto di vita, (così come la storia di Genet presa ad esempio da Anita Gramigna in “Il labirinto educativo: percorsi formativi nel mondo marginale”)[1]. Si tratta di decostruire, decontestualizzare e anche di imparare da quelle “avventure” conoscitive dei ragazzi di strada,come dall’arte informale e dai nuovi linguaggi dei ragazzi di strada.

 

La pedagogia della marginalità dovrebbe scandire il passaggio dall’ordine sentimentale in cui spesso tali riduzioni si inseriscono a quello della formalizzazione, della simbolizzazione, dell’autocoscienza. È a partire dal loro universo simbolico che possiamo condurre questi ragazzi verso una lettura più consapevole del loro modo di intenzionare la realtà e dunque della percezione del sé. Ed è a partire dai codici che conoscono che possiamo condurli nell’esplorazione di altri linguaggi, di altre astrazioni, di nuove opportunità per rendere più trasparente l’intelligibilità della loro avventura esistenziale[2].

 

In questa prospettiva che pone al centro dell’azione educativa le esperienze vissute perde di significato il termine ri-educazione e viene posto l’accento sul termine “persona” e sul “dialogo”, inteso come agire comunicazionale che sposta l’ago della bilancia sulla dimensione relazionale e sulle aspettative di vita dei soggetti detenuti. È la prospettiva in cui prendono forma intenzionalità e originalità dei vissuti, configurandosi come pensiero divergente.

 

 

2.1. Una cassetta degli “attrezzi” pedagogici: ricerca del bello, educazione all’emotività, autobiografia

 

Le dinamiche che si sviluppano all’interno della comunità carceraria si frappongono alla socializzazione e integrazione sociale, sia per la componente individualistica sia per l’interiorizzazione di norme e valori poste in essere nella dimensione carceraria che assumono una loro legittimità nel tentativo da parte del singolo di ammortizzare il peso della pena. Si parla così di “prigionizzazione”[3]: un processo di adeguamento alla subcultura della comunità detenuta che si sovrappone negativamente, seppure con modalità diverse tra le persone ristrette, ai tentativi di progettualità e ridefinizione di senso della propria esperienza anche in termini deweyani e che si accompagna ad un altro processo psicologico qual è quello definito della “spoliazione del sé”.

 

Una delle grandi figure delle pedagogie attive e progressiste come John Dewey ci viene in aiuto per considerare come l’azione svolta dal carcere non sia solo contro ogni principio di paideia, quanto rivolta all’assoggettamento del detenuto che, in quanto tale, non può essere privato di esperienze significanti: 

 

La vita è sviluppo, e che svilupparsi, crescere è vita. (…) Il processo educativo è processo di continua riorganizzazione, ricostruzione, trasformazione. L’inclinazione a imparare dalla vita stessa e a rendere le condizioni del vivere tali che ognuno sia in grado di imparare nel corso stesso del vivere è il più bel prodotto della scuola[4]

 

Tesi collegate al suo sentimento democratico, fondato sulla visione di una società più giusta, aperta al confronto, allo scambio e al dialogo.

 

In carcere, pertanto, si ripropone in modo alquanto drammatico la necessità di far scaturire atti di resilienza come habitus teso ad affrontare conformismi e riduzioni dell’intenzionalità a gesti di ordinaria routine. “Drammatico”, perché significa per ciascun individuo abbandonare il senso della comunità e riorganizzare e ricostruire in modo autonomo la propria esperienza, aprendosi ad un confronto, ad uno scambio e al dialogo in termini di strappo con atteggiamenti ritenuti di prassi condivisa, accettati dalla comunità detenuta. La coercizione della vita carceraria, se non adeguatamente accompagnata da un percorso di cura della persona, provoca un senso di perdita della propria soggettività che sfugge al controllo giuridico mentre, paradossalmente, presta il fianco ad affiliazioni, rafforzando proprio quei poteri illegali che si vorrebbero contenere.

 

La ricerca pedagogica assume come strumenti di particolare rilevanza in questo percorso di comprensione e recupero del sé in termini dinamici strumenti come la ricerca del bello, l’educazione all’emotività, l’autobiografia: sono solo alcuni degli aspetti rilevanti di quella più ampia dimensione di cura che tiene conto della situazione di malessere e disagio del detenuto nel non poter gestire il proprio tempo in modo autonomo.

 

Dai margini e da questo avamposto di umanità segregata proviene l’occasione per riflettere in senso pedagogico sulla vita, in quella tensione consapevole di intenzionare la realtà che muove dalla detenzione, da quel centro di individualità dove s’annidano valori e linguaggi della comunità originaria, la scoperta del bello oltre il consumismo omologante, uno sguardo inedito, il pensiero dell’imprevedibile. Sono i luoghi dell’individualità, arco teso tra precarietà e fragilità, da valorizzare attraverso esperienze che conferiscano valore al mondo e alla vita.

 

Il principio della bellezza può costituire, inoltre, un’importante occasione di rilettura-costruzione-riorganizzazione della propria interiorità e della conoscenza perché forgia linguaggi che attraversano chi li produce come chi li ascolta, perché induce cambiamenti trasformativi e ascolti partecipati[5].

 

La bellezza diviene pertanto un valore etico più che estetico, in quanto si aggancia ad esigenze di autodeterminazione che non confliggono con l’ethos della comunità, ed esprime una ricerca del sé consapevole che impegna la persona umana anche nella sua dimensione emotiva.

 

Un detenuto entra in carcere con il proprio vissuto, ma quello che ne viene disvelato attraverso le formalità burocratiche appartiene alla sfera del reato. Ogni detenuto è uno tra i tanti, emarginato dalla società civile perché ha compiuto un reato e, pertanto, viene indicato come pericoloso. La sua storia, il sentire, le consapevolezze che è riuscito a conquistare, lo stile emozionale passano in secondo piano come se non facessero parte della sua persona.

Vengono ignorati, pertanto, aspetti fondamentali della sua identità su cui far leva per recuperare positività e un nuovo reinserimento sociale, così come previsto dalla Carta Costituzionale.

 

.. i processi di pensiero e di interpretazione della realtà costituiscono parti importanti della vita affettiva, anche se in modo variabile[6].

 

Le emozioni hanno una loro sapienza. La consapevolezza di sé che conduce all’autodeterminazione intenzionale e progettuale non può prescindere dalla trama emozionale della propria esistenza. Quella stessa che condiziona in modo mai neutrale le nostre percezioni e la nostra conoscenza del mondo. L’educazione all’affettività, anche attraverso strumenti espressivi come il teatro e l’arte, trova la legittimità del suo impiego in carcere, perché il reato commesso indica trascuratezza, analfabetismo emozionale, mancanza di empatia. Fra le nuove povertà, presente soprattutto laddove si registrano disagi, emerge anche quella affettiva.

 

Per chi vive le proprie emozioni in modo autoreferenziale – dimentico degli altri, mancando di autoconsapevolezza delle proprie convinzioni e valori – è più facile commettere un reato. Ma, siccome è fondamentale non costringere gli altri dentro repertori delle nostre cristallizzazioni cognitivo-emozionali, è altrettanto importante che l’educatore stesso sia formato a percorsi di inclusività, affinché possa favorire un “apprendistato emozionale” ed educare al conflitto senza per questo cadere in fatti di violenza, oppressione, inimicizia.

 

Il recupero del sé in termini di autodeterminazione resiliente, di sviluppo di un nuovo equilibrio, è possibile alimentando sentimenti sempre più ampi e ricchi in una visione olistica della persona capita come integrazione di saperi plurali, cognitivi ed emotivi insieme. “L’epoca della passioni tristi”[7] è contrassegnata da un profondo malessere emozionale che si esprime con maggiore evidenza nella marginalità della detenzione, dove stati depressivi, somatizzazioni e vere e proprie patologie assecondano la recidiva, ulteriori comportamenti devianti e trasgressivi, pericolosi per sé e per gli altri. D’altra parte il ruolo fondamentale dei sentimenti nei processi educativi era già stato riconosciuto da Rousseau e Morin, che ritennero fondamentale segnalare l’esigenza “vitale” di un raccordo fra emozioni ed educazione per una vera riforma dell’insegnamento. Una necessità che si acuisce in carcere, dove diventa urgente la cura delle proprie emozioni, trovare la chiave per un dialogo interno, e comprendere come rendere tali emozioni in modo originale, non conformistico.

 

In un contesto di cura, diventa centrale il recupero della propria interiorità: il dialogo interno si apre come quello spazio in cui riscrivere la propria esperienza presente e recuperare quelle passate. Ed è un processo di ricostruzione che assume la forma della consapevolezza, dell’ascolto, ma anche di recupero della propria originalità, in quanto si assume la propria diversità come valore che sfugge ad una realtà omologante come quella carceraria. Come ricorda Italo Calvino raccontare è narrazione e autonarrazione: si evidenzia così ciò che più sta a cuore attraverso il ricordo di parole, immagini, gesti, associazioni che svelano il nascosto, il rischioso, ciò che emerge con maggiore difficoltà alla coscienza[8]. In ciascuna storia si esprimono metafore e simboli che attivano processi di decifrazione del vissuto personale in una continua opera di rivisitazione critica del proprio sé. L’esperienza della reclusione porta con sé rabbia, malinconia, angoscia. Un dolore che – come nella malattia, e non è raro ammalarsi in quelle condizioni – sembra chiudere gli orizzonti; e questo comprendersi nella narrazione poietica di sé apre ad un senso esistenziale che, in quanto disvelamento, deve essere guidato dall’educatore. Un processo ermeneutico in cui il silenzio assume forme predominanti. È la dimensione del nostro esistere, in cui si ricompongono in modo straordinario spazio e tempo, in cui la parola evoca immagini di un sé inedito e nascosto, reclamando ascolto enteropatico delle proprie fragilità[9]. La persona ristretta, narrandosi, ricostruisce e delinea i contorni e gli aspetti salienti del proprio progetto di vita, esperimenta possibilità inedite di percorsi di resilienza, diventa consapevole delle dinamiche relazionali e dei valori culturali che condizionano il proprio modo di percepire e di percepirsi, recupera il senso psichico della propria esperienza di dolore. Nel ricordo e nella memoria emerge non solo il vissuto ma, in forma meta cognitiva, anche il riconoscimento dei processi di sapere emotivo. Recupera il senso della reciprocità del vivere civile.

 

Francesca Rennis

 


[1] Cfr. A. Gramigna - M. Rigetti, op. cit., p. 113

[2] A. Gramigna - M. Rigetti, op. cit., p. 125

[3] D. Clemmer, (1997), La comunità carceraria, in Santoro E., Carcere e società liberale , G. Giappichelli Editore, Torino 1997, pag. 206 dove afferma tra l’altro che: «Il grado di “prigionizzazione” è dato dalla misura in cui il detenuto imita i modelli forniti dalla cultura della prigione».

[4] J. Dewey, Democrazia e educazione, tr. it., La Nuova Italia, Firenze1984, p. 66

[5] A. Gramigna – M. Righetti,”…Svegliandomi…” , op. cit., pp. 154-155

[6] D. Ianes, Educare all’affettività, Erickson, Trento 2007, p. 4

[7] M. Benasayang- G. Schmit, L’epoca delle passioni tristi, Feltrinelli, Milano 2004

[8] Cfr. I. Calvino, La strada di San Giovanni, Mondadori,  Milano 1990

[9] Per un’analisi della narrazione e degli aspetti formativi legati all’emotività: A. Mannucci – L. Collacchioni (a cura di), L’avventura formativa fra corporeità, mente ed emozioni, Edizioni ETS, Pisa 2009; D. Demetrio, Micropedagogia. La ricerca qualitativa in educazione, La Nuova Italia, Firenze 2000; D. Demetrio, Raccontarsi: l’autobiografia come cura di sé, Cortina, Milano 1996; D. Demetrio, I sensi del silenzio. Quando la scrittura si fa dimora, Mimesis, Milano-Udine 2012; D. Demetrio, Filosofia del camminare. Esercizi di meditazione mediterranea, Raffaello Cortina Ed., Milano 2005; P. Gaspari, Narrazione e diversità. L’approccio narrativo in Pedagogia e didattica speciale, Anicia, Roma 2008; M. C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Il Mulino, Bologna 2004

 


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