Immigrazione tra repressione e prevenzione: il nodo della cittadinanza

People, Matteo Cecchinato
People, Matteo Cecchinato

“Sicurezza” e “terrorismo” sono i termini ricorrenti nel linguaggio politico e mediatico di questo periodo, mentre sembrano usciti dal vocabolario comune “diversità” e “integrazione” a significare un pericoloso cambiamento di paradigma nell’opinione pubblica. Il linguaggio svela così uno sbilanciamento sostanziale tra le politiche di prevenzione e quelle di repressione a favore di queste ultime. La diversità culturale, linguistica e religiosa, in questa prospettiva, provoca caos e disordine anziché motivare al confronto e sollecitare alla valorizzazione delle differenze.

Nonostante una nutrita letteratura a proposito spieghi, senza per altro riuscire a travalicare le mura accademiche, le cause radicali alla base di un fenomeno di natura economica come quello provocato dalla globalizzazione dei mercati, dal linguaggio quotidiano emergono verità contrastanti. Se per un verso, infatti, si prospetta ancora la liberalizzazione dei mercati quale unica soluzione per la crescita economica, dall’altro non si riesce a gestire la portata delle migrazioni causate dal dominio economico esercitato dall’occidente. Inoltre, la massiccia campagna a favore della legalità porta con sé rischi e conseguenze sia a livello di produzione simbolica incidendo, con non poca responsabilità dei mezzi di comunicazione di massa, sull’immaginario collettivo, sia a livello di comportamenti che valicano il guado dell’intolleranza fino ad esplodere in episodi di razzismo.

Il predominio della tecnica anziché determinare quella svolta auspicata dalle correnti di ispirazione positivista ha dichiarato il proprio fallimento in una serie di drammatici episodi tanto che ormai non è più ipotizzabile, secondo autorevoli fonti di pensiero, parlare di innovazione tecnologica in senso neutrale come attività sganciata da una renovatio etica legata allo sviluppo sociale. Ma sono voci di frontiera che non riescono ad essere riconvertite in scelte strutturali efficaci a livello mondiale cosicché ad un’azione economica globale votata al profitto non ne corrisponde ancora una equivalente, diretta a recuperare il profondo divario di chances di vita tra i paesi industrializzati e quelli del sud del mondo. Bisogna rilevare, di conseguenza, che ad un’esigenza dichiarata di considerare nuovi orizzonti di responsabilità corrisponde, di fatto, una limitazione delle libertà di movimento delle persone, ma non delle merci, accentuata dalla fobia collettiva del terrorismo di cui parla Alessandro Dal Lago in un testo che scopre le perverse quanto inconsapevoli azioni linguistiche messe in atto dai “politici di professione” per racimolare consensi e dai mezzi di informazione di massa nel riprodurre logiche del senso comune al fine di mantenere l’audience o sostenere interessi editoriali.

 

La selezione economica attivata dagli organismi finanziari e monetari mondiali se da un lato provoca, insieme al movimento di grossi capitali, povertà diffusa ed emarginazione sociale, dall’altro genera strategie di difesa nelle società industrializzate che evitano il riconoscimento pieno degli immigrati. Miriadi e milioni di persone che tentano la sopravvivenza laddove il benessere ha provocato invece perdita di identità e culto dell’immagine. Ma cosa fare, di fronte alle allettanti alternative delle società occidentali, se non riprendere il viaggio che ha segnato dal punto di vista antropologico le prime forme di umanità? Il “nomadismo” di chi, clandestino, profugo o rifugiato, si spinge oltre il conosciuto in dimensioni che promettono non solo possibilità occupazionali quanto successo e prestigio rappresenta per i paesi occidentali un dilemma esasperante da regolare e controllare secondo criteri di utilità. Gli episodi drammatici di terrorismo, letti in quest’ottica, rilevano un quid che sfugge al dio della società postmoderna incarnato nella tecnica e che, evidentemente, non si può risolvere con strategie repressive.

Senza annunci apocalittici studiosi del calibro di Edgar Morin avevano previsto lo scenario che si apriva con la complessità sociale, cogliendone rischi e prospettive. «La complessità crescente – scrive Morin nel ’93 - comporta un aumento delle libertà, delle possibilità di iniziativa, nonché nuove possibilità di disordine, tanto feconde quanto distruttive. La sola soluzione integratrice è lo sviluppo di una solidarietà effettiva, non imposta, ma interiormente sentita e vissuta come fraternità». Una soluzione che sembra uscita di scena dal panorama politico nazionale e internazionale, rimasta a livello di risposte emergenziali e fuori da ogni ipotesi strutturale per lasciare esclusivamente il passo, invece, a politiche di controllo di tipo repressivo.

Ciò è tanto più evidente se si prende in esame la situazioni delle carceri italiane dove i detenuti immigrati hanno superato la soglia del 35 per cento della popolazione detenuta che oltretutto ha raggiunto quota 59 mila, secondo dati aggiornati al 30 giugno dal Ministero della Giustizia-Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Dati eclatanti che dovrebbero far riflettere sulla frattura gigantesca aperta tra la popolazione garantita e quella soggetta a scivolare nella marginalità e che dovrebbe indurci ad uscire da retoriche di tipo allarmistico che si accompagnano ai discorsi sulla sicurezza sociale. Un tema che rimbalza dal mondo della politica, di destra come di sinistra, a quello dell’informazione sottraendosi a soluzioni funzionali e incoraggiando, invece, la fobia dello straniero, divenuto caprio espiatorio di un’insicurezza che invece ha altrove le sue radici. Nella “spensieratezza” dell’industria post-fordista, nella potenza “incauta” delle multinazionali, nell’incapacità dei governi locali ad uscire dalle logiche dell’emergenza e dell’improvvisazione. Il dibattito serrato sulla sicurezza come quello sulla legalità non ha fatto altro che offuscare la ricerca di soluzioni adeguate impedendo di riflettere sulle cause e concause che spingono verso la marginalità strati sempre più ampi di popolazione residente e proveniente da altri paesi quando si rende necessario rompere la dialettica circolare tra riduzione dei benefici sociali – come la disoccupazione e l’insufficienza di risposte in campo educativo come sanitario - e repressione e attività criminale.

Da questo punto di vista la fuoriuscita dalla folla delle solitudini di cui parla Zygmunt Bauman, uno dei maggiori precursori della critica alla globalizzazione, è pensabile recuperando la diversità come valore fondante. L’integrazione rappresenta la sfida che la complessità sociale porta con sé a tutti i livelli, socio-culturale, legislativo, politico-economico, e pertanto costituisce la misura di valutazione degli organismi istituzionali. Una istituzione è tanto più integrata in quanto accoglie le diversità che la animano. E’ l’idea di diversità come dimensione esistenziale e non come condizione emarginante. In questa prospettiva, la diversità, che caratterizza l’identità personale e culturale di ciascuno, viene capita all’interno dei processi di democratizzazione, come valore e motivo di crescita per l’altro.

Contrariamente ad ogni affermazione di principio totalizzante occorre considerare l’incompletezza dell’essere umano non più concepibile come monade o sistema chiuso secondo l’imperativo economico della globalizzazione, ma come valore che si realizza in una dimensione relazionale. Un riconoscimento, quello della cittadinanza, che solo raggiungendo la sua pienezza giuridica può far affiorare dall’invisibilità chi rasenta i baratri dell’esistenza.

 

Francesca Rennis


Bibliografia minima

 

Giuseppe Ardrizzo (a cura di), Governare l’innovazione. La responsabilità etica, Rubbettino, Soneria Mannelli, 2003

Zygmunt Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano, 2000

Ralf Dahrendorf, La libertà che cambia, Laterza, Roma-Bari, 1994

Alessandro Dal Lago, Non-persone. L’esclusione dei migranti in una società globale, Feltrinelli, Milano, 2004

Edgar Morin, La testa ben fatta, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2002