Se vogliamo comprendere il senso del viaggiare, se non ci accontentiamo di vivere comodamente o in modo lamentoso la quotidianità, dovremmo leggere il libro di Andrea Fucile e ripercorrere la sua esperienza. Ci accorgeremmo che contro ogni asfittica staticità il viaggio dinamizza anche il pensiero, crea relazioni, apre alla diversità, pretende uguaglianza, ma non è il dinamismo dello sviluppo industriale e postindustriale. Non è un’operazione neutra viaggiare per come intende il viaggio Andrea Fucile. Comporta una fatica fisica ed esistenziale – camminare, fare l’autostop, programmarsi l’automantenimento, affidarsi alle persone che s’incontrano, sentirsi spaesati, fare scelte estreme per sopravvivere

 

L’antica arte dell’arrangiarsi per sopravvivere, la patologica incertezza di iniziare un nuovo giorno, senza sapere se si riuscirà a guadagnare un pezzo di pane o un piatto di riso, annebbiano la mente e non leniscono il bisogno di cibo. E quando non lo si ha, né per sé né per i propri c ari, si ruba.

(p. 152)

 

Una fatica che fa mettere se stessi da parte in funzione di “altro”. Questo “altro” è al di fuori del modello dominante del progresso basato sul profitto, richiede valori che pongono dubbi sulle certezze che ci vengono propinate per verità assolute. Ma laddove lo sguardo si allarga ci s’interroga e ci s’interroga sul tipo di rapporto che la società occidentale e globalizzata ha costruito con l’uomo e con l’ambiente, ma è anche pensiero riflettente sugli effetti che il viaggio provoca su se stessi. Il viaggio, per come fatto da Andrea, ci cambia.

Questo viaggio porta allo scoperto la contraddizione esistenziale di fronte ai tempi della tecnica che impone una sua legge della velocità tesa al maggior profitto anche a chi vive ai margini socio-culturali. Tempi che soffocano anche il respiro della terra. Si comprende la distanza pericolosa che l’uomo sta compiendo con politiche invasive tra sé e gli altri e tra sé e la natura. Il “momento giusto e opportuno”, quello che i greci individuavano con kairos differenziandolo dal tempo meccanico del chronos, emerge in modo viscerale rendendo la situazione un’esperienza unica.

Il viaggio e la fatica del viaggio sulle proprie gambe, sulle proprie energie perché il respiro della fatica determina, oltretutto, i tempi dell’andare e non il contrario.

Il viaggio di Andrea si fonda sui cinque sensi e sull’intuizione, pone al centro valori come la solidarietà, la tolleranza, la multiculturalità, il pacifismo, l’ecologia e le tradizioni al fine di indicare un punto di incontro culturale al di fuori di logiche consumistiche, oltre il diktat dell’apparenza al quale siamo stati abituati. E questo si nota soprattutto nell’intervista di Natale Vulcano con il quale l’autore ripercorre il viaggio alla ricerca di un senso.

Questo tempo nel viaggio di Andrea prevale dunque su chronos, che pure si presenta come una necessità. Penso alla permanenza forzata in carcere (un’avventura narrata a p. 98) o all’incombenza del lavoro a termine in Australia, agli orari di aerei, alle scadenze, e a quelli determinati dagli appuntamenti con la famiglia.

In sintesi, non è un viaggio lento nel senso che questo termine ha acquisito con il camminare lento. Diversa è l’esperienza del viaggio lento nella filosofia del camminare di Duccio Demetrio, o anche, se vogliamo rimanere in ambito artistico-teatrale a quella del cantastorie Biagio Accardi con i suoi viaggi in compagnia di un’asina per le montagne del Pollino. Lì è presente una “praticità critica” al pensiero dominante, la negazione di ogni velocità. E’ un’esperienza radicale, alternativa, oppositiva in tutto al consumismo, un’apologia della marginalità. Ma anche nel viaggio di Andrea vi troviamo il pensiero meridiano, la denuncia delle ingiustizie e delle disparità economiche e sociali, ma anche, come suggerisce Franco Cassano in un testo del 2001 (Pensiero meridiano, p. 13) l’invito ad apprendere il positivo della solitudine. «Bisogna imparare -  scriveva - a star da sé e aspettare in silenzio, ogni tanto esser felici di avere in tasca soltanto le mani».

Un momento di crescita personale che si accomuna a quella dei camminatori in quanto ribadisce, proprio come scrive Antonio Labbucci in Camminare, una rivoluzione il “valore primo dell’uguaglianza” perché i muove in contesti e ambienti problematici, ma che mantiene, tuttavia, l’ansia del bruciare le tappe, del correre da una parte all’altra. E poi  la stanchezza, ma è ancora presente una progettualità di viaggio. Guarda avanti più che al viaggio fatto. Nonostante ciò, Andrea si differenzia dall’esperienza del viandante classico, quella figura del pensiero descritta da Nietzsche in Umano troppo umano è diversa dal viaggiatore, che invece ha una meta.

Per Nietzsche il viandante è colui che vuole dimenticare il proprio passo, il suo passato, la coscienza e l'ombra. Si potrebbe assomigliare al nomade. E c'è un solo modo per dimenticare i propri passi di vita senza cancellarne le tracce. Basta cercare il ricordo nell'oblio, essere in divenire, non essere più io. Basta semplicemente non vivere come passato quanto si è passato. Non farlo più stare immobile, fisso, come cosa che in quanto passata non passa più, ma metterla in flusso. Essere il proprio divenire. Non essere passato, ma passare. Ed il viandante è propriamente colui che passa, l’uomo che si sente libero dal peso dei rimorsi e dei rimpianti del passato, dalle ansie e dalle preoccupazioni per il futuro; l’uomo che è divenuto ciò che è: viandante che cammina senza meta finale, che trae gioia dal semplice camminare, simbolo del nostro mutamento, della nostra transitorietà e, soprattutto, della nostra provvisorietà.

Eppure Girovaga(bo)ndo ne conserva quello sguardo di spirito libero che Nietzsche descrive nella nascita della filosofia del mattino:

“Ma egli ben vuole guardare, e tener gli occhi aperti su tutto quel che veramente accade nel mondo; per questo non gli è consentito unire troppo strettamente il suo cuore a nessuna cosa particolare; dev'esserci in lui stesso qualcosa di nomade, che gioisca del mutamento e della provvisorietà. Certo, per un tale uomo giungeranno cattive notti, in cui sarà stanco e troverà chiusa la porta della città che dovrebbe offrirgli riposo; e forse, oltre a ciò, il deserto giungerà sino a quella porta, come in Oriente, e gli animali da preda urleranno ora lontano ora vicino, e si leverà un forte vento, e i ladri gli ruberanno le bestie da tiro. Allora la notte terribile calerà per lui sul deserto come un secondo deserto, e il suo cuore sarà stanco di peregrinare. Ma quando si leverà il sole del mattino, rosseggiante come una divinità della collera, la città si aprirà, e nel volto degli abitanti egli vedrà forse ancor più deserto, sporcizia, inganno, insicurezza che davanti alle porte - e il giorno sarà quasi peggiore della notte. Questo potrà ben succedere una volta al viandante; ma poi giungeranno a ricompensarlo i gioiosi mattini di altri paesi e di altri giorni, in cui già nel grigiore della luce egli vedrà passar danzando accanto a sé, nella nebbia dei monti, gli sciami delle Muse, e in cui poi, quando silenzioso, nell'armonia mattutina dell'anima, egli passeggerà sotto gli alberi, dalle vette e dai recessi delle fronde gli cadranno intorno solo cose belle e chiare, dono di tutti quegli spiriti liberi che stanno sul monte, nel bosco e nella solitudine e che, come lui, nel loro modo ora gioioso ora meditabondo, sono viandanti e filosofi. Nati dai misteri dell'alba, essi meditano come mai il giorno possa avere, tra il decimo e il dodicesimo tocco, un volto così puro, così trasparente, così serenamente radioso: - essi cercano la filosofia del mattino”. (Umano, troppo umano). 

E’ un girovagare da vagabondo che comunque ha una meta, quella di tornare forse, me lo auguro, per restare secondo il significato di resistenza dato da Vito Teti all’etica della restanza.

 

Francesca Rennis


Presentazione del libro con Andrea Fucile

"Festa del libro" a Belvedere M.mo - 24 agosto 2017