Il ruolo dell’ideologia nella “Dialettica dell’Illuminismo” di Horkheimer e Adorno

di Francesca Rennis

Goya, Il sonno della ragione genera mostri
Goya, Il sonno della ragione genera mostri

La matrice ideologica della società borghese

 

La riflessione critica di Horkheimer e Adorno ha per oggetto l’ideologia che secondo i due esponenti della teoria critica sarebbe responsabile sia del dramma della seconda guerra mondiale che dell’American way of life. Oltrepassando quindi i limiti di un’etica minimalista, i due fenomeni storico-culturali sarebbero legati indissolubilmente dalla stessa matrice illuministica. Il termine Illuminismo non designa però una particolare epoca storico-culturale, il XVIII secolo, ma nell’interpretazione dei due autori, sta ad indicare sia la propensione dell’uomo a dominare, controllare e trasformare la natura, sia l’organizzazione della società borghese.

Sebbene lo stesso Habermas ne abbia criticato la forma testuale, risulta chiara invece in Dialettica dell’Illuminismo la prospettiva di fondo che consente ai due autori di unire già nel titolo illuminismo a dialettica.

 

Utopia e immaginazione

 

Lo sfondo di riferimento è infatti quello elaborato dall’Istituto per la Ricerca Sociale di Francoforte sull’oggettivazione[1] dell’uomo contemporaneo e sul recupero della libertà come elemento utopico[2] che si esprime attraverso al dimensione estetica[3].

Quale “pensiero capace di contestare profondamente la società attuale”[4], la Teoria critica ha il compito di far emergere le contraddizioni non solo della società contemporanea, ma delle stese premesse conoscitive che ne controllano e dirigono l’andamento, mentre la critica dell’ideologia nel senso marxiano di sovversione delle condizioni alienanti dell’esistenza non sarebbe più possibile.

La svolta concettuale determinata dall’epistemologia dei lumi con l’abbandono della speculazione teologica e metafisica e l’affermazione tecnico-scientifica, pur essendo dettata dall’entusiasmo verso il progresso, ha orientato l’interesse conoscitivo verso il metodo scientifico, celandone i risvolti più bui.

Il vero “spirito sistemico”, accolto entro gli schemi disegnati dall’Illuminismo, diventa paradossalmente il metodo sperimentale[5], l’operation, il procedimento efficace[6].

 

La reificazione del mito della ragione

 

Un nodo sul quale Horkheimer e Adorno convengono con l’analisi del ’36 di Ernst Cassirer, pur traendone le estreme conseguenze: come in una traslazione geometrica la sconfitta del mito non avrebbe provocato altro che la reificazione del mito nella stessa ragione. E le radici dell’Illuminismo affondato tanto profondamente nel mito da rigenerarsi esso stesso come mito.

 

«Come i miti fanno già opera illuministica, così l’illuminismo, ad ogni passo, si impiglia più profondamente nella mitologia. Riceve ogni materia dai miti per distruggerli e, come giudice, incorre a sua volta nell’incantesimo mitico»[7].

 

Quella che Cassirer stesso indica come la “produttività” del pensiero illuministico[8], Horkheimer e Adorno concepiscono come ideologia autoriproducente, reificazione del mito, mimesi, per cui la critica stessa non può assolvere alla funzione pratica, storico-materialistica, di risoluzione delle contraddizioni reali.

La pretesa illuministica di conoscere la natura, trasformarla e plasmarla secondo i propri fini si è rovesciata nel suo contrario diventando dominio sull’uomo.

  

La dialettica negativa

 

La funzione della dialettica è allora negativa in quanto afferma le contraddizioni che hanno rovesciato il rapporto conoscitivo.

La dialettica negativa della teoria critica sviscera dunque come metodo filosofico la dialettica del dominio propria dell’Illuminismo e che si esplicita nella stessa teoria. La reificazione del sistema avviene infatti anche attraverso la “mediazione razionale”, in cui si nasconde l’incapacità di criticare e di contrastare il sistema. Compito della teoria critica è quello di evidenziare, in un’ottica ancora illuministica, i limiti intrinseci alla ragione[9].

Se per Diderot il dominio era solo un’ipotesi[10], nella “Dialettica dell’Illuminismo” Horkheimer e Adorno evidenziano i meccanismi del dominio messi in campo dall’Illuminismo, di cui appunto la stessa Teoria critica si comprende come parte integrante.

In uno studio del ’33 lo steso Horkheimer aveva tracciato il programma conoscitivo della teoria critica rielaborando la teoria conoscitiva marxiana per cui la conoscenza è conoscenza dei nessi reali[11].

In altre parole il concetto di dialettica negativa, che mostra le contraddizioni tra ragione e realtà, segnando il rapporto idologia-utopia, per cui la realtà è sempre in contraddizione con al ragione, diventa parte dello stesso progetto illuministico di emancipazione[12].

Questa tesi è stata approfondita più tardi dallo stesso Horkheimer in “Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale”, quando nel tentativo di risalire al formalismo filosofico, causa della separazione uomo-natura e dell’affermazione di “un’armonia teorica smentita di continuo dal pianto degli infelici e dei diseredati”, indica il principio della negazione come soluzione per superare l’ontologia filosofica “inevitabilmente ideologica”[13].

Rivalutando così il concetto di riflessività, la teoria critica, comprendendosi ancora come autocritica, interpreta se stessa come estrema radicalizzazione della ragione illuministica.

 

La soggettività liquidata nel mondo industrializzato

 

La teoria critica accentua, attraverso i concetti di reificazione, massificazione, dominio, totalità, mimesi, il dissolversi dell’individuo nella società consumistica[14].

Riflettere criticamente sulle contraddizioni dell’occidente industrializzato, in cui “il soggetto trascendentale della conoscenza viene – apparentemente – liquidato, come ultimo ricordo della soggettività, e sostituito dal lavoro tanto più liscio dei meccanismi regolatori automatici”[15], vuol dire considerare che la società dei consumi ha creato bisogni e necessità non reali[16] pur di rispondere ad una logica espansionistica della produzione. Cosicché ciò che prima era imposto ora diventa bisogno, ma dove c’è il bisogno c’è anche predominanza e subordinazione. Conseguenza immediata è il ribaltamento della teoria conoscitiva per cui non è il soggetto a conoscere la natura, ma la società e le sue forme sociali a farsi conoscere come natura. La storia viene naturalizzata e sperimentata come natura, il processo di materializzazione si compie come naturalizzazione. Ciò che è il prodotto dell’uomo nella società industrializzata, non è più riconosciuto come tale perché ha assunto il segno negativo di una imposizione[17]. Questo rapporto ambiguo del reale che si impone al pensiero come verità assoluta riproduce la dialettica dell’Illuminismo.

 

Mimesi e confusione nella società industrializzata

 

Insistendo sulla dinamica individuo-società, per cui il soggetto ha creato una forma di dominio strutturale di cui egli stesso è vittima inconsapevole, Horkheimer e Adorno affermano:

 

“La società continua la natura minacciosa come coazione stabile e organizzata, che, riproducendosi negli individui come autoconservazione coerente, si ripercuote sulla natura come dominio sociale su di essa”[18].

 

Il concetto di mimesi[19], carattere proprio dell’identificazione mitica realizzata dall’illuminismo: un carattere che a livello conoscitivo si rivela come confusione in quanto l’uomo nella società industrializzata non riesce più a distinguere tra natura e cultura, tra ciò che è intrinseco e ciò che appartiene alla sua storia.

Pertanto “mimesi” della Dialettica dell’illuminismo, non è la mimesi incontrollata pre-storica, ma riproduzione del dominio attraverso la divisione del lavoro e la prassi sociale che è sempre comunque “assunzione del diverso sotto l’identico”[20].

 

Dalle contraddizioni del pensiero illuministico all’impegno emancipativo

 

L’illuminismo viene compreso dai due autori come logos, ratio o pensiero razionalistico borghese che, impegnato ad emanciparsi da ogni autorità esterna e ad affermare la propria libertà, non si accorge delle contraddizioni che produce[21]. Per la ragione illuministica, la conoscenza della natura ha il fine del dominio integrale della natura, ma questa operazione che avviene attraverso lo sviluppo del metodo scientifico (a partire da Bacone) riduce la scienza a spiegazione della realtà[22] e l’illuminismo a mito[23] per il carattere totalitario, dogmatico con cui riesce ad imporsi[24] attraverso rapporti sociali fondati sulla divisione del lavoro[25].

Infatti, la ragione illuministica, pur proponendosi come dissoluzione dei miti attraverso l’elaborazione di una scienza oggettiva, è divenuta essa stessa mito[26], imponendosi dogmaticamente su se stessa attraverso l’oggettivazione dell’uomo.

Da questo riflettere criticamente sui limiti e sulle contraddizioni prodotte storicamente possono scaturire elementi per il recupero della soggettività umana e per il riscatto dell’individuo?[27]

All’interno della logica illuministica, le capacità umane vengono ridotte a reificazione dell’esistente (adattamento), rispondendo per esempio a criteri di professionalità, efficienza, competenza, specializzazione metodologica, assumendo la funzione dell’ideologia[28].

La normalità si autoriproduce secondo il principio di identità attraverso forme linguistiche che sembrano essere neutrali e oggettive e definizioni standardizzate che spiegano ciò che è e ciò che non è in base a interessi di dominio[29].

 

“Lo sdoppiamento della natura in apparenza ed essenza, azione e forma che solo rende possibile il mito, come pure la scienza, nasce dalla paura dell’uomo la cui espressione diventa una spiegazione”[30].

 

Il sistema si deifica, ciò che viene ignorato è la reificazione attraverso il linguaggio.

La società industrializzata ha creato degli strumenti di autoriproduzione asettica attraverso procedure denominate scientifiche. In questa situazione non si può parlare di uomo come “soggetto in libertà e ragione” se non nella dimensione utopica.

 

L’utopia legata al recupero della dimensione umana, spirituale, presente nella forma della produzione artistica

 

E’ l’utopia che alimenta la speranza per una ri-soggettivazione dell’uomo a partire dalla consapevolezza delle contraddizioni, per sottrarsi alla semplice imitazione e ripetizione dell’esistente che esteticamente si traduce nell’armonia dell’”arte totale”[31].

La speranza dell’emancipazione dall’oggettivazione e dalla omologazione della società industriale è legata al recupero di quella dimensione umana, spirituale, utopica, presente nella forma della produzione artistica[32].

I veri valori ontologici emergono dal soggetto e non da modelli precostituiti.

La dimensione estetica luogo della libertà e dell’espressività individuale[33], che si sottrae alla semplice imitazione di ciò che è già nella quotidianità, ha “un effetto di senso proprio”[34] e che non è semplice spontaneismo[35], ma affidata alla creatività del singolo e che, pertanto, fuoriesce dalla logica dell’imitazione culturale. E’ luogo di consapevolezza in cui si affaccia il non ancora divenuto.

In questo senso, la dimensione estetica si rivela come l’ambito di rivalsa dell’uomo che, proprio nell’esperienza singolare[36], si scopre come soggetto libero dalla massificazione imposta dalla reificazione culturale.

I limiti della riflessione critica sono stati evidenziati da quel filone storiografico, di cui Cassirer è autorevole rappresentante, che invece ha fatto notare il procedimento tautologico di questo procedere, incapace di cogliere secondo le categorie della ragione le aperture e le possibilità di superamento della ragione illuministica.



[1] H. Marcuse, Sui fondamenti filosofici del concetto di lavoro nella società economica (1933), in Cultura e società. Saggi di teoria critica 1933-1965, Einaudi, Torino, 1969, p. 170, dove l’approfondimento critico della distinzione marxiana tra oggettivazione e alienazione (Manoscritti economico-fisolosfici del 1844) indica l’oggettivazione come dato insopprimibile, ontologico, che affligge l’esistenza umana, una negatività radicata nell’essenza stessa dell’esistenza umana e quindi anche nel lavoro stesso.

[2] K. Mannheim, Ideologia e utopia, Il Mulino, Bologna, 1957, pp. 211-224, definendo l’utopia come “mentalità… in contraddizione con la realtà presente” e orientamento che tende “a rompere l’ordine prevalente” (p. 211), la contrappone all’ideologia, che può assumere diverse sfumature: da formazione di idee “situazionalmente trascendenti che non riescono mai de facto ad attuare i progetti in sessa impliciti” (p. 213) a incoscienza del soggetto “trattenuto dal divenire consapevole dell’incongruenza delle sue idee con la realtà da un intero ordine di principi, implicito nel suo pensiero storicamente e socialmente determinato” (p. 214), alla “mentalità ipocrita”, “caratterizzata dal fatto che essa ha storicamente la possibilità di scoprire la contraddizione tra le sue idee e la sua attività concreta, ma la tiene celata per determinati interessi di vita” (p. 214), fino alla “mentalità ideologica fondata sull’inganno consapevole, dove l’ideologia ha da venire interpretata come una menzogna deliberata… intenzionale inganno” (p. 214). L’utopia è letta da Mannheim, in sintonia con l’interpretazione dinamico-dialettica della realtà di stampo marxiano (pp. 218-219), come tentativo di certi gruppi sociali di sovvertire l’ordine sociale (topos) per realizzare concretamente le proprie aspirazioni (p. 212). “Queste aspirazioni che assolvono una funzione rivoluzionaria divengono utopie” (p. 212).

[3] H. Marcuse, Filosofia e teoria critica (1937), in Cultura e società…, op. cit., pp. 87-108, dove considerando l’intreccio fra l’istanza idealistica di una ragione che deve tradursi nella realtà e l’istanza materialistica di trasformazione della realtà attraverso la trasformazione dei rapporti economico-sociali, nega l’esistente (pp.87-100) e, nello stesso tempo, ricerca nella “condizionatezza sociale” (p. 100) quel “contenuto «eccedente»” (p. 100), critico, che si esprime idealmente (p. 102), attraverso l’astrazione del pensiero e, soprattutto, attraverso la fantasia (p. 105). “L’immaginazione indica un alto grado di indipendenza dal dato e di libertà in un mondo di illibertà. Trascendendo ciò che è presente, essa può anticipare il futuro” (p. 105).

Cfr. G. Badeschi, Introduzione a la scuola di francoforte, Laterza, Bari, 1994, p. 94: “Immaginazione e fantasia sono strumenti decisivi per ‘inventare’ qual mondo nuovo il cui contrassegno più importante e significativo non è la regolazione e la pianificazione del processo lavorativo, bensì l’appagamento di «bisogni universali»”.

[4] Ivi, p. 79

[5] P. Casini, Scienza, utopia e progresso. Profilo dell’illuminismo, Laterza, Roma-Bari, 1994, p. 30

[6] M. Horkheimer-T.W.Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1997, pp. 12-13

Cfr. M. Borrelli, La ragione come processo di emancipazione…, in Qualeducazione, n. 46, Cosenza, Ed. Pellegrini, 1996, p. 18: “Elevando il pensiero formalizzato ad istanza assoluta” l’illuminismo ha concretizzato il principio d’identità nella conciliazione di universale e particolare, cioè attraverso la capacità di omologazione e la produzione di stereotipi.

[7] M. Horkheimer-T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, op. cit., p. 19

[8] E. Cassirer, La filosofia dell’Illuminismo, La Nuova Italia, Firenze, 19955, pp. 10-11

[9] M. Horkheimer-T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, op. cit., Introduzione, p. XXXI: “La teoria critica è … la coscienza della funzione sociale della teoria, e si muove verso il superamento di ciò che impedisce alla ragione di essere razionale”.

[10] P. Casini, Scienza, utopia e progresso…, op. cit., p. 30

[11] P. M. Horkheimer-T.W., Materialismo e metafisica, in Teoria critica. Scritti 1932-41, a cura di A. Schmidt, Vol. I, Einaudi, Torino, 1974, pp. 52 2 49, dove tra l’altro afferma: «L’attività teorica non è conoscenza immobile di un oggetto fisso, bensì è, appunto, attività, cioè essa stessa un aspetto della realtà in trasformazione: il mondo naturale e sociale è continuamente modificato dagli uomini, che in questa praxis modificano incessantemente anche se stessi e le proprie idee».

[12] M. Borrelli, La ragione come processo di emancipazione del Gattungssubjekt nella Teoria Critica (Horkheimer/Adorno/Habermas) in Qualeducazione n. 46, op. cit., p. 15: “La Negative Dialektik (Adorno) non permette alcuna identificazione positiva (ontologico-metafisica/storico-sociale). Il razionalismo, identificato col pensiero della non-identificazione (Nichtdentität), della negatività, esclude, per principio, ogni fissazione positiva”.

E. Cassirer, La filosofia dell’illuminismo, op. cit., Prefazione, p. 10

F. Venturi, Utopia e riforma dell’illuminismo, G. Einaudi ed., Torino, 1970, Introduzione

P. Casini, Scienza, utopia e progresso…, op. cit., pp. 17-20

[13] M. Horkheimer, Eclissi della ragione. Critica della ragione strumentale, Einaudi, Torino, 1969, pp. 140-166. “L’essenza o il lato positivo del pensiero filosofico consistono nel comprendere la negatività e relatività della cultura esistente” (p. 157) senza perdere di vista la fondamentale differenza fra ideale e reale, fra teoria e pratica” (p. 157).

[14] M. Horkheimer, Eclissi della ragione…, op. cit., p. 84: “Tanto più il soggetto un tempo considerato autonomo, viene svuotato d’ogni contenuto per trasformarsi infine in un semplice nome senza più nulla denominare. La trasformazione totale di ogni e qualsiasi campo dell’essere in un insieme di strumenti porta alla liquidazione del soggetto che li dovrebbe usare. Questo dà alla moderna società industriale un aspetto nichilistico; la soggettivazione, che esalta il soggetto, lo condanna a morte”.

Ivi, p. 137: “La strumentalità della cultura di massa serve a rafforzare la pressione della società sull’individuo, precludendogli ogni speranza di preservare la propria individualità, di salvarla dalla disintegrazione”.

[15] M. Horkheimer-T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, op. cit., p. 37

[16] M. Horkheimer-T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, op. cit., p. 127: “I clichès sarebbero scaturiti, in origine, dai bisogni dei consumatori: e solo per questo motivo sarebbero accettati così docilmente, senza la minima opposizione. E, in effetti, è proprio in questo circolo di manipolazione e bisogno che ne deriva (e che viene in tal modo, a rafforzarla) che l’unità del sistema si compatta sempre di più. Ma ci si guarda bene dal dire che l’ambiente in cui la tecnica acquista il suo potere sulla società è il potere di coloro che sono economicamente più forti sulla società stessa. La razionalità tecnica di oggi non è altro che la razionalità del dominio. E’ il carattere coatto, … , della società estraniata a se stessa”.

Ivi, p. 133: “L’impoverimento dell’immaginazione e della spontaneità del consumatore culturale dei nostri giorni non ha bisogno di essere ricondotto, in prima istanza, a meccanismi di ordine psicologico. Sono i prodotti stessi, … , a paralizzare quelle facoltà per la loro stesa costituzione oggettiva. Sono fatti in modo che la loro ricezione adeguata esiga bensì prontezza di intuito, capacità di osservazione e competenza specifica, ma anche da vietare letteralmente l’attività mentale o intellettuale dello spettatore”.

[17] Cfr. H. Marcuse, Sui fondamenti del concetto di lavoro (1933), in Cultura e società, op. cit., p. 170: “A queste esigenze poste dall’oggettività il fare umano risponde con quel regolarsi consapevole sull’oggetto, quel sottomettersi alle sue leggi immanenti, che si rivela in ogni singolo atto lavorativo e che dà alla «mediazione» tra uomo ed oggettività il carattere di un rapporto fra cose … Espressamente o no, volontariamente o no, nel lavoro si tratta sempre della cosa stessa. Lavorando, il lavoratore è «presso la cosa», sia che stia dietro una macchina, o che progetti piani tecnici, o che prenda delle misure organizzative, o che studi problemi scientifici, o che istruisca degli uomini, ecc. nel suo fare si lascia guidare dalla cosa, si assoggetta e ubbidisce alle sue leggi, anche quando domina il suo oggetto, ne dispone a piacere, lo guida e lo mette in moto. In ogni caso non è «presso di sé», non lascia accadere la propria esistenza, al contrario si pone al servizio dell’«altro da se stesso», è presso l’«altro da sé», anche quando questo fare dà compimento alla propria vita liberamente assunta. Questa alienazione ed estraneazione dell’esistenza, questo prendere su di sé la legge della cosa invece di lasciar-accadere la propria esistenza, è, in principio, ineliminabile, anche se può sparire durante e dopo il lavoro fino all’oblio completo, e non coincide affatto con la resistenza della «materia», né cessa con al conclusione del singolo atto lavorativo; l’esistenza è in se stessa rivolta a questa cosalità”.

[18] M. Horkheimer-T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, op. cit., p. 195

Ivi, p. 20: “La civiltà è la vittoria della società sulla natura che trasforma tutto in mera natura”.

[19] Ivi, pp. 18-19

[20] Ivi, p. 195

[21] Cfr. Ivi, pp. 11-50

[22] Ivi, p. 23

[23] Ivi, p. 19

[24] Ivi, p. 14-17

[25] Ivi, p. 29

[26] Cfr. ivi p. 48: “… l’illuminismo ha rinunciato alla sua stessa realizzazione”. Cfr. p. 17: “Il mito trapassa nell’illuminismo e la natura in pura oggettività”.

Ivi, p. 19: “Come i miti fanno già opera illuministica, così l’illuminismo, ad ogni passo si impiglia più profondamente nella mitologia”.

Cfr. M. Borrelli, La ragione come processo di emancipazione …, in Qualeducazione, n. 46, op. cit., p. 18, mostra come la riproduzione archetipale, mitica della dialettica dell’illuminismo, si realizza nel pensiero scientista contemporaneo: “La scienza nella sua interpretazione positivistica viene tradotta … in puro “estetismo”, in un sistema di segni assoluti, privo di ogni finalità che lo trascenda”.

Cfr. M. Horkheimer-T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, op. cit., pp. 35-36, dove si mostra come la mitologia, penetrata nel pensiero illuministico, ha, da una parte, la forma dell’estraneazione degli uomini dagli oggetti dominati, dall’altra la “reificazione dello spirito” che ha prodotto automatismi convenzionali nella comunicazione tra gli uomini e all’interno della stessa coscienza individuale.

Cfr. M. Horkheimer, Eclissi della ragione …, op. cit., p. 85: “Tipico dell’età in cui viviamo è il modo in cui le forze prevalenti della civiltà stessa «manipolano» questa rivolta della natura, servendosene come di un mezzo per perpetuare le condizioni che le danno origine e contro le quali essa è diretta. La civiltà, come irrazionalità razionalizzata, «integra» la rivolta della natura facendosene un altro mezzo o strumento”.

Ivi, p. 113: “L’illusione nutrita dalla filosofia tradizionale nei confronti dell’individuo e della ragione – l’illusione cioè della loro eternità – si va perdendo. Un tempo l’individuo vedeva nella ragione solo uno strumento dell’io; ora si trova davanti al rovesciamento di questa deificazione dell’io”.

[27] Cfr. E. Bloch, Spirito dell’utopia, a cura di F. Coppellotti, Firenze, La Nuova Italia, 1993, pp. 213-303, dove il recupero dell’interiorità soggettiva può avvenire attraverso il simbolico, l’espressività dell’inconscio, inafferrabile dalle categorie razionali, lo stupore casuale e inadeguato (p. 245). “Possiamo … sfuggire a noi stessi ed alla nostra forma esistenziale fenomenica in quanto formiamo caratteri intellegibili in cui il labirinto del mondo ed il paradiso del cuore si possono vedere separatamente. E’ nel focus imaginarius, nella parte soggettiva intellegibile più nascosta di noi stesi, che il mondo comincia ad entrare nella manifestazione della speranza del futuro. Proprio il fatto che il sapere teoretico si vede limitato a sapere del semplice fenomeno, fa sì che si liberino la fede, il sapere pratico e l’ampliarsi in senso pratico della pura ragione; compaiono i postulati, non dimostrabili sul piano teoretico, ma incondizionatamente validi a priori sul piano pratico” (p. 226).

[28] G. Bedeschi, Introduzione a la scuola di francoforte, op. cit., p. 75 e sgg.

[29] Cfr. M. Borrelli, La ragione come processo di emancipazione …, in Qualeducazione, n. 46, op. cit., p. 17: “La formalizzazione scintoistica moderna della ragione ha portato, …, alla formalizzazione totale d’ogni contenuto (d’umanità) che definisce l’uomo, alla disumanizzazione (Entmenschlichung) del pensiero, alla perdita spirituale della stessa sostanza dell’uomo, alla perdita, infine, della stessa soggettività”.

[30] M. Horkheimer-T.W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo, op. cit., p. 23

[31] Ivi, p. 25

[32] Cfr. Ivi, pp. 137-138, dove criticando gli effetti reificanti dell’industria culturale, affermano che “entrando, grazie allo stile, nelle forme dominanti dell’universalità, nel linguaggio musicale, pittorico o verbale, ciò che viene espresso nell’opera dovrebbe riconciliarsi con l’idea della vera universalità. Questa promessa dell’opera d’arte, di fondare la verità mediante l’inserimento dell’immagine nelle forme socialmente tramandate, è insieme inevitabile e fallace. Essa assolutizza le forme reali dell’esistente, pretendendo di anticipare l’adempimento nei loro derivati estetici. In questo senso la pretesa dell’arte è sempre insieme ideologica … La barbarie estetica attuale realizza effettivamente la minaccia che incombe sulle creazioni spirituali fin dal giorno in cui sono state raccolte e neutralizzate come cultura”.

[33] Ivi, p. 27, parafrasando Schelling (Sistema della filosofia della natura): “L’arte comincia dove il sapere pianta l’uomo in asso. Essa è per lui «il modello della scienza, e dove è l’arte, la scienza dove ancora arrivare»”.

[34] Cfr. T.W. Adorno, Wagner Mahler, Einaudi, Torino, 1975, p. 139, usa il concetto di ‘residuo’ per indicare ciò che non si inserisce nella logica immanente dell’identità.

[35] Cfr. M. Horkheimer-T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, op. cit., p. 138

[36] Cfr.. M. Horkheimer, La società di transizione. Individuo e organizzazione nel mondo attuale, Einaudi, Torino, 1979, dove il singolo si scopre come consapevolezza dei limiti del progresso (p. 150), in cui “persino l’idea del soggetto autonomo” può dissolversi (p. 174). Cfr. p. 168: “la nostra teoria critica più recente non si è più battuta per la rivoluzione … si tratta piuttosto di preservare ciò che ha un valore positivo, per esempio l’autonomia, l’importanza del singolo, la sua psicologia differenziata, taluni momenti della cultura, senza arrestare il progresso. Di accogliere in ciò che è necessario e che non possiamo impedire, quello che non intendiamo perdere: l’autonomia del singolo”.


Rivisto e pubblicato in I. Pozzoni (a cura di), Frammenti di filosofia contemporanea (vol. IV), Limina Mentis Ed., Villasanta (MB) 2015