"Ferramonti 1943", il romanzo di Mario Giacompolli ambientato nella Calabria fascista

La fatica di riportare luce su ingiustizie e soprusi

Il tempo non cancella gli eventi, semmai li custodisce come il fuoco sotto la cenere. Basta soffiarci sopra che divampa in tutta la sua potenza. Una riflessione che nasce dalla lettura di “Ferramonti 1943”, il primo romanzo di Mario Giacompolli, che intreccia la trama di “giallo” con caratteristiche narrative del romanzo storico recuperando ambienti, scene, personaggi di una Calabria dominata da interessi latifondisti, intorno ai quali si costruiscono e si allacciano poteri mafiosi. Intrighi e colpi di scena si susseguono senza dare tregua al lettore che, pagina dopo pagina, insegue le vicende narrate in cerca di una verità che solo alla fine emergerà completamente. Nello svolgersi dei fatti l’autore ci restituisce dinamiche socio-economiche e identità influenzate da forme autoritarie di potere, tanto più che la narrazione si apre durante il periodo fascista. Protagonista assoluta della vicenda, che inizia nell’aprile 1943 in un paesino della provincia di Catanzaro, sembra essere una macchina fotografica, la Bessa Voigtländer del 1935, ma questa si rivela un escamotage che come fil rouge accompagna la fitta trama degli avvenimenti. Il titolo “Ferramonti 1943” suggerisce, invece, che la vicenda trova il suo snodo principale proprio nel campo di concentramento di Tarsia, i cui personaggi, frutto dell’invenzione, compaiono solo in uno degli ultimi capitoli. Così si comprende come il titolo di un romanzo che pure ha già conquistato la notorietà  classificandosi al terzo posto nella IX edizione del Premio Guido Morselli per il romanzo inedito 2017, sia stato modificato in questa nuova veste editoriale a cura della “Pietro Macchione Editore”. Ed infatti le foto nascoste per oltre dieci anni nella macchina fotografica riescono a dare il senso alla storia solo passando attraverso i ricordi del campo di concentramento fascista costruito a 35 chilometri da Cosenza. Un senso che il protagonista Giorgio Serra, voce narrante, cerca riportando alla luce verità scomode, quelle stesse che avevano provocato, oltre alla morte di un innocente bracciante, la violenza contro il maestro Alessandro Terenzi, accusato ingiustamente di tradimento. Un’ingiustizia che il protagonista, allora alunno del maestro assurto a modello, sentirà come urgenza morale rimuovere per riabilitare pubblicamente la figura di un uomo che aveva cercato con i suoi incauti scatti fotografici di denunciare la violenza fascista e che, più che altro, era visto come figura scomoda perché non acconsentiva che in classe si riproponessero quelle gerarchie sociali alle quali i cittadini si erano invece rassegnati. E la verità come esigenza etica contro i soprusi e le violenze si scontra con il clima di acquiescenza e omertà, paura e diffidenza. Ma anche contro la visione predominante “buonista” del fascismo.

Sullo sfondo si stagliano le immagini di avvenimenti storici che avevano segnato l’Italia fascista e del dopoguerra. I crimini di guerra in Etiopia, le leggi “razziali” del 1938 e le responsabilità italiane nella deportazione degli ebrei nei campi di sterminio, gli accordi di Osimo del 1954, le ribellioni dei contadini con l’uccisione della giovane madre Giuditta Levato e, più tardi, con l’eccidio di Melissa, i difficili anni della guerra fredda in Italia che videro finanche la costruzione di una delle prime fake new, quella riferita ad una dichiarazione assurda di De Gasperi che fece scalpore mediatico anche per la denuncia di diffamazione dello statista trentino contro il settimanale satirico della Rizzoli, il “Candido”, diretto da Giovannino Guareschi. Questo aveva infatti diramato copia di una fantomatica lettera inviata nel 1944 da De Gasperi ad un colonnello dell’esercito americano nella quale il capo del governo avrebbe chiesto all’esercito alleato di bombardare le periferie e l’acquedotto di Roma per sollecitare una rivolta popolare contro il fascismo (1). Il racconto si arricchisce, così, di note storiografiche e antropologiche che fanno ripensare ad una cultura contadina ricca di simboli e iconografie della tradizione che reificano ingiustizie e divisioni di classe, ma carente di logos, oltre che di mezzi economici. Anzi, è proprio la povertà a costituire un elemento di forza nel perpetuarsi delle ingiustizie sociali. Sarà un'estranea a quel mondo, Lara, a stigmatizzare il comportamento della famiglia di Giorgio:

«Lara mi interruppe per farmi notare che non apprezzava il comportamento della mia famiglia e della gente del paese, che ingoiavano prepotenze senza neppure tentare di ribellarsi. Io le dissi che non conosceva le genti di Calabria, che da noi non si va dai carabinieri a denunciare un sopruso perché un tale sgarbo potrebbe costare caro» (p. 209).

 

Lo “sgarro”, il simbolo indiscriminato di rapporti di poteri asimmetrici, seppure non citato aleggia nell’atmosfera di illibertà che sovrasta il piccolo paese. Una forma di negligenza che equivale a un non riconoscimento di chi comanda, punibile anche con la morte. Il riportare alla luce quella cronaca ha voluto anche dire risvegliare vecchi rancori mai sopiti, assecondare nuove vendette. Lo “sgarro” non si dimentica, appartiene alla cultura del posto, ne è parte integrante, sottaciuta quanto inamovibile.

La ricostruzione dei fatti, sepolti sotto la cenere del tempo, riemerge faticosamente con la memoria di un passato che non è sfumato, ma che va ricostruito nei dettagli, compreso e restituito al presente come verità. Per questo si addensano ipotesi e ricerche, e saranno proprio queste a portare al campo di Ferramonti.   

 

Emerge, così, la fragilità della memoria nel farsi memoria collettiva.

«Lei m’ha raccontato una vicenda da non credere» dirà il fotografo» (p. 137)

«Non era sempre stato facile interpretare il mio diario. Come diceva il maestro bastano poche righe per ricordare avvenimenti che altrimenti andrebbero persi, ma rileggendolo m’ero accorto che spesso le righe erano veramente poche; tanto poche che più d’una volta avevo dovuto ricorrere ai ricordi degli amici» (p. 379).

 

E mentre la domanda su “Cosa era accaduto quel giorno?” arde la curiosità del protagonista Giorgio Serra divenendo prima fiammella e poi incendio che brucia ogni tentativo di sovvertire la verità dei fatti, avvengono incontri fatali che rinforzano la determinazione del protagonista, si compie un rapimento, nasce un amore, viene redatto un diario, nascono figli e nipoti. E proprio di fronte a quest’ultimi - Cinzia ne è una rappresentante - la voce della memoria acquisisce un significato etico prioritario, fondante:

«Chi non ne sapeva nulla invece era Cinzia, che il giorno successivo, sulla via del ritorno, m’aveva subissato di domande, sia su quanto era accaduto ben sessantacinque anni fa, sia sul perché non ne avessi mai parlato. Non le tornava che una simile vicenda fosse  completamente mancata nelle storie di famiglia. Per farla breve m’ero dovuto impegnare a farne un racconto il cui titolo era stata lei stessa a trovare: “Memoria smarrita e ritrovata”. Avevo dovuto “dissotterrare” il mio diario» (p. 376).

 

Un diario che, alla fin fine, il protagonista svela come non definitivo. Emergono ancora domande da soddisfare e il binomio memoria-verità diventa sempre più problematico.

«Pensai a Cinzia e a ciò che avrebbe detto se avesse saputo che, ancora una volta, la verità creduta tale, che avevo raccolto e narrato per lei in “Memoria”, non era che il riflesso di un inganno» (p. 382).

 

E sarà proprio questo ripensamento sull’autonarrazione a ricomporre definitivamente il puzzle, raccogliendo le tessere mancanti, spolverando l’ultima cenere rimasta.

La verità, alla fine, sarà anche un atto di giustizia in cui l’ethos affiora per contrapposizione alla realtà culturale calabrese, dove ancora si registra, drammaticamente, l’assenza dello Stato.

«Oggi credo – dirà alla fine il protagonista - che fu quel bisogno antico di giustizia, perché il bisogno di verità già contiene in sé un seme di giustizia. Se qualcosa ereditai dal mio maestro fu proprio quella necessità. Ciò nonostante mi stavo accorgendo che neppure l’averla raggiunta mi avrebbe dato pace: l’aver finalmente compreso per intero la causa della lunga serie di morti, tragedie, ingiustizie e falsità, cui avevo assistito o di cui ero stato vittima, non mi stava restituendo quella pace di cui ancora conservavo un lontano, irraggiungibile ricordo. La mia terra, che nonostante tutto ancora amo, alla quale mi legano ricordi e luoghi indelebili, come vive la sua ultima stagione?» (p. 404).

 

 

Francesca Rennis

 

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(1) Per una ricostruzione dell’intera vicenda clicca qui

 


Mario Giacompolli, appassionato di storia contemporanea si occupa da molti anni di narrativa storica convinto sostenitore che la narrativa può contribuire alla conoscenza di eventi che hanno segnato la vita nazionale e mondiale. Ha pubblicato per la Fabbrica dei Segni Editore Solo per amore tuo (2015) e Purché non si sappia (2017), entrambi con prefazione di Giorgio Galli.