Le emozioni nell'educazione alla legalità

Le emozioni hanno una loro sapienza. La consapevolezza di sé che conduce all’autodeterminazione intenzionale e progettuale non può prescindere dalla trama emozionale della propria esistenza. Quella stessa che condiziona in modo mai neutrale le nostre percezioni e la nostra conoscenza del mondo. L’educazione all’affettività, anche attraverso strumenti espressivi come il teatro e l’arte, trova la legittimità del suo impiego nel fatto che il conoscere non è mai neutro, ma influenzato da giudizi e pregiudizi, per cui nel rapporto educativo diventa centrale rintracciare connessioni con i processi cognitivi e scoprirne la complessità. Se poniamo il soggetto-persona al centro dell’attività didattica, la stessa deontologia professionale obbliga a mantenere uniti i piani della corporeità e della psichicità, delle pulsioni e bisogni con quello delle conoscenze. La trama delle emozioni ha un suo alfabeto che chiama in causa competenze relazionali e metodologiche a partire dalla conoscenza delle proprie emozioni. E siccome è fondamentale non costringere gli altri dentro repertori delle nostre cristallizzazioni cognitivo-emozionali è altrettanto importante che l’educatore stesso sia formato a percorsi di inclusività affinché possa favorire un “apprendistato emozionale” ed educare al conflitto senza per questo cadere in fatti di violenza, oppressione, inimicizia.

L’educatore non può prescindere dal proprio sé nell’accompagnamento del discente verso l’autoconsapevolezza del proprio sistema di pensieri, convinzioni, valori, verso la conoscenza e distinzione delle proprie emozioni per coglierne anche i luoghi di conflittualità. E laddove emergono disagi, trascuratezza del sé, analfabetismo emozionale, mancanza di empatia, in una parola ciò che viene indicato come le “nuove povertà”, il bisogno di un’interazione affettiva significativa si fa più stringente. Non solo per migliorare la qualità della vita e delle relazioni, ma anche come prevenzione al reato. Il senso di appartenenza alla realtà civile e il recupero di una cittadinanza attiva, di una democrazia partecipata non possono disgiungersi dal recupero delle proprie emozioni come capacità empatica, di ascolto e dialogo, di fronte alle quali è stata finora privilegiata la dimensione cognitivo-relazionale. In questo discorso il sé non è più autoreferenziale, ma abbandona quel pregiudizio etnocentrico con il quale normalmente attribuiamo valori, definendo il buono e il cattivo, razionale e irrazionale sulla base di categorie stabilite, ma aperto ad accogliere la diversità nei suoi aspetti creativi ricostruendo un concetto solidale del “noi”.

L’approccio innovativo della pedagogia della marginalità tende a recuperare l’aspetto innovativo, creativo e le potenzialità delle marginalità intese come tanti centri dai cui punti di vista il centro viene visto come marginale. E’ una prospettiva con un suo valore che, tuttavia, per rifuggire dai problemi insiti di nichilismo e relatività, deve necessariamente ancorarsi ai valori della persona umana e alla ricerca di senso, all’intenzionalità che caratterizza l’essere persona. In condizioni di fiducia e solidarietà la devianza, proveniente in larga maggioranza da svantaggi relazionali, può essere arginata e controllata attivando quel processo di resistenza interno alla distruzione e di capacità di costruzione che va sotto il nome di resilienza. In questa prospettiva non si ha nessuna pretesa di modificare l’uomo quanto piuttosto quella di accompagnarlo ad acquisire consapevolezze e incontrare opportunità mancate tali da indurlo a compiere scelte che invece potevano essere evitate.

È un concetto, quello della resilienza, di una portata eccezionale e forse ancora sottovalutato perché mira a far emergere la parte “sana” della persona.

Il recupero del sé in termini di autodeterminazione resiliente, di sviluppo di un nuovo equilibrio, è possibile alimentando sentimenti sempre più ampi e ricchi in una visione olistica della persona capita come integrazione di saperi plurali, cognitivi ed emotivi insieme. “L’epoca della passioni tristi” (così il titolo del libro di Benasayang M.-Schmit G., edito da Feltrinelli nel 2004) è contrassegnata da un profondo malessere emozionale, ansie, malattie psicofisiche, depressioni, disagi socio-culturali che bisogna trasformare con la convinzione che intelligenza ed emozione non sono competenze opposte, ma solo separate e che l’emotività costituisce un fattore importante nella costruzione della nostra identità e quindi della nostra esistenza. Tanto più che è ormai riconosciuta l’esistenza delle emozioni nel nostro patrimonio genetico in quanto utili alla sopravvivenza della specie. Basti pensare alle reazioni di paura di fronte ad un pericolo imminente.

D’altra parte il ruolo fondamentale dei sentimenti nei processi educativi era già stato riconosciuto da Rousseau; e Morin ritenne necessario segnalare l’esigenza “vitale” di un raccordo fra emozioni ed educazione per una vera riforma dell’insegnamento. Una necessità che legittima l’attenzione verso il dialogo interno e l’espressione originale, poietica, non conformistica del proprio sé.

In questo quadro, la persona umana cerca lo sviluppo del sé nella direzione data dalla Carta Costituzionale ed è impensabile poter prescindere dalla formazione di sé come formazione del cittadino. In questa direzione, seppure cancellata dall’ultima modifica dei programmi didattici, la parola “legalità” resta sottintesa. Riemerge nella legislazione di alcune regioni collegata all’antimafia. Nel 1980 in Sicilia dopo l’assassinio del Presidente regionale Mattarella con i “Provvedimenti alle scuole per contribuire allo sviluppo di una coscienza civile contro la criminalità mafiosa”, nel 1985 in Campania e successivamente in Toscana, Liguria e Marche. Nel febbraio 2011 la Lombardia ha promulgato la LR 2/2011 “Azioni orientate verso l’educazione alla legalità” dopo l’operazione Crimine-Infinito. In Calabria è stata emanata la Legge regionale n. 2 del 15 gennaio 1986, “Provvedimenti a favore delle scuole e delle Università calabresi per contribuire allo sviluppo della coscienza civile e democratica nella lotta contro la criminalità mafiosa”. Tra il 2011 e il 2012 leggi specifiche antimafia sono state emanate nelle regioni Basilicata, Emilia Romagna, la provincia di Trento, la Liguria e il Veneto. Non bastano le leggi, che comunque manifestano un bisogno diffuso, perché queste devono radicarsi e interiorizzarsi affinché divengano valori tali da interferire sul consenso sociale di cui godono le organizzazioni mafiose, decostruire quei paradossi culturali su cui si regge il fenomeno mafioso quali il senso comune che la mafia porta ricchezza e lavoro, impedire connivenze e collusioni politiche che proliferano e danno origine alla cosiddetta “zona grigia”.

 

Francesca Rennis

 

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