Da migrante a cittadino del mondo

Communitas, comunità, community. Potrebbero sembrare la traduzione di uno stesso concetto e invece rispecchiano cambiamenti di tempo e una traslazione di significato che c’impone di riflettere su come viviamo. E, in particolare, sugli aspetti formali e/o informali con i quali possiamo confrontarci con gli altri. Penso che le nostre comunità viaggino sempre più nella direzione di normalizzare, ridurre, restringere aspetti di inquietudine e irrazionalità imponendo forme di confronto e regole sempre più sganciate da quegli aspetti emotivi, di pietas potremmo dire, che contrassegnavano il termine nella sua accezione latina. Nelle varie community invece, nate con l’adesione volontaria a social network si esprimono forme emotive, desideri, caratteristiche informali e anche irrazionali che la società nella sua realtà quotidiana non riesce a contenere ed esprimere. La tecnologia della comunicazione risponde, in questo caso contraddicendosi, a un bisogno umano emergente ed emarginato dalla società dei consumi e del rigorosamente tecnicizzato. In questo contesto si comprende come l’alterità permanga come valore imprescindibile della nostra identità così come all’orizzonte si stagli ancora oggi un senso di appartenenza che ritroviamo frantumato nei tanti rivoli prodotti dal mare della globalizzazione economica.

Ne percepiamo i limiti anche in modo drammatico, non solo ascoltando i vari indici finanziari che ogni giorno tengono d’occhio l’andamento della borsa mondiale, ma quotidianamente tra licenziamenti e perdita di potere d’acquisto. A questo punto ci si potrebbe chiedere cosa c’entri questo discorso con il tema iniziale. Recupero subito il passaggio indicando nei mercati internazionali gli attori indiscussi di un rapporto impari con l’umanità. Gruppi di potere e d’interesse, costituendosi ad hoc, hanno sostituito altri gruppi, quelli formati su base spontanea ed emozionale a sostegno della crescita delle persone. La sopravvivenza dell’uomo, che prima aveva nella natura e nel fato i suoi avversari più agguerriti, ora deve cimentarsi in ben altre acrobazie, messe in campo da politiche economiche e sociali che mettono a dura prova la nascita stessa del welfare. Ricordiamoci che il punto di vista dal quale ci siamo posti è occidentale, ovvero da quella parte di mondo in cui a questa situazione, di difficile comprensione e gestione per il cittadino, va a sovrapporsi quella di altre umanità formate da tornado di immigrati. Disperazione e disorientamento stanno prendendo il sopravvento tanto che sembra ormai impossibile parlare d’identità nazionale. Forse sarebbe più giusto parlare in termini di comunità globale se solo riuscissimo a identificare i luoghi delle possibili soluzioni, i luoghi della pacifica convivenza. Alle attività internazionali manca una qualsiasi forma di government, mentre in modo alquanto debole dalle piccole comunità comunali della nostra penisola continuano ad alzarsi bandiere localistiche e discorsi costruiti su luoghi comuni, ormai senza senso, che ripropongono la valorizzazione di tradizioni, dialetti e prodotti locali come la panacea di una crisi persistente.

Se da un lato, quindi, gli uomini che vivono in quegli stanziamenti territoriali che chiamiamo paesi o città o stati debbono esteriormente assecondare norme e leggi promulgate, le persone nella loro unicità e irripetibilità vengono ridotte ad individui funzionali a scelte che reificano logiche consumistiche, mantenuti nell’incapacità di emanciparsi dalle gabbie del cosiddetto progresso scientifico e tecnologico, ormai inesorabilmente legato a doppio nodo con il capitalismo da cui secondo Emanuele Severino sarebbe addirittura sopraffatto (intervista dal titolo “L’ossimoro del capitalismo ecologista” in http://www.controlacrisi.org).

E se “la solitudine è impraticabile e la società fatale” come scriveva Emerson in “Società e solitudine” (edito nel 2008 da Diabasis, p. 36) dal campo enigmatico del nostro vivere in società affiora prepotente la percezione di aver perso le nostre radici, che il nostro incedere vaghi nella instabilità e nella precarietà, come se la condizione esistenziale del migrante e dello straniero fosse più propriamente una condizione antropologica dell’umanità. Una condizione di non-appartenenza che proprio in questi giorni viene messa in luce dall’ultimo numero di “MicroMega”, dove è stato pubblicato un inedito di Günther Anders, Senza radici, ma della quale si nutre il dibattito attuale di fronte alle ondate d’immigrazione dai Paesi non industrializzati, mettendo in crisi gli stessi ordinamenti giuridici fondati sullo ius sangunis. In effetti siamo ancora qui a chiederci con Platone se è possibile in tempi di lotte fratricide e di divisioni trovare un luogo comune, una koinonia. Dall’occidente abbiamo ereditato fossili e cadaveri, direbbe il Nietzsche di “Umano troppo umano”, linguaggi ed azioni che conducono a definire il diverso come nemico e ad esercitare sulla natura forme di potere tecnologico che si traducono in tragedie. Che quel concetto di communitas, ispirato dal pensiero unico vada ulteriormente trasformato coniando nuovi linguaggi di condivisione? Che il nostro stesso pensiero debba essere invaso da un senso di nuova umiltà allontanandosi da pretese di verità indissolubili e da quei luoghi comuni che rappresentavano certezze inalienabili? Forse, e sono in molti ad esserne convinti, sarà proprio da questa nuova consapevolezza proveniente dalla demolizione di ogni orientamento, di perdersi tra i binari del già dato, che l’uomo saprà delineare un nuovo spazio dell’abitare e della sussistenza identificandosi stavolta come cittadino del mondo.

 

Francesca Rennis