Creative economy. L'intangibile a sostegno della competitività

Diversità ed etica per l’innovazione

di Francesca Rennis

«E apprese la parola
e l'aureo pensiero
e impulsi civili e come fuggire i dardi
degli aperti geli e delle piogge.
D'ogni risorsa è armato, né inerme
mai verso il futuro si avvia
solo dall'Ade
scampo non troverà...»

Sofocle, Antigone, Rizzoli, 1982, p. 83


introduzione


Lo sviluppo dell’umanità prende le forme di macchia di leopardo, sempre labile e incontrollabile nonostante i vari tentativi a livello scientifico e politico di coglierne leggi e processi, soprattutto in un’ottica di previsione.

Insieme a cambiamenti affascinanti e imprese sconvolgenti incalzano ombre di decadimento e recessione, dovute sia alla supremazia del capitale e dell’azione economica rispetto alla persona umana, sia ai processi di globalizzazione, sui quali si interrogano studiosi di tutto il mondo per definire proposte di governance.

In altre parole, siamo di fronte a situazioni paradossali che si ripercuotono inevitabilmente sulla vita quotidiana. Da una parte la necessità di rinsaldare i legami sociali locali in un’ottica di mercato globale, dall’altra lo sfaldarsi della struttura sociale in individualismi. Da una parte l’affermarsi della razionalità strumentale, dall’altra la revoca di pretese certezze e l’apertura al relativismo con rischi di derive nichiliste. Da una parte la traducibilità di ogni bisogno in termini economici, dall’altra la perdita di senso e la degenerazione della socializzazione in fenomeni di intolleranza. Insomma l’economia, che dovrebbe essere uno strumento per vivere bene, oltre ad aver prodotto maggiori e nuove disuguaglianze, «sfugge progressivamente – per dirla con Bauman – al controllo politico»[1], sottraendo all’uomo stesso il potere di decisione sul proprio futuro.

In questo contesto, non mi occuperò delle problematiche aperte da diversi punti di vista[2], né di riproporre le critiche che pure mi sembrano più che fondate verso un sistema di mercato dominato da regole autoreferenziali. Vorrei invece, seppure tenendo conto del complesso quadro di riferimento globale[3], analizzare il significato assunto dal termine “innovazione”[4] e come, attraverso questo, si stiano profilando percorsi di recupero identitario legati al territorio contro una marginalizzazione dai significati polisemici.

Un discorso che, grazie al superamento di concetti di economia dell’informazione o della conoscenza, in seguito al contributo di Richard Florida, ha visto la nascita della cosiddetta “economia creativa” nei Paesi a capitalismo avanzato. Questo passaggio, importante sia a livello epistemologico che ontologico, ci induce a riflettere sul valore della cultura e della creatività, in particolare, in una visione sistemica per rilevare una sorta di cesura tra mondo delle imprese, più intraprendente nella sperimentazione di nuovi percorsi verso l’innovazione, e mondo politico e della formazione scolastica, ancora incapaci di sostenere adeguatamente le esigenze emergenti da una nuova mentalità imprenditoriale e nella ricerca.

 

 

 

 

L’intangibile a sostegno della competitività

 

La competitività è una caratteristica fondante nelle imprese che vogliono cavalcare l’onda lunga della globalizzazione e ha ragione Giovanni Scanagatta a ribadire dalle pagine de Il Sole 24 Ore che la competizione «non è una tecnica ma una visione del mondo perché la sua applicazione consente di riversare i vantaggi del progresso scientifico sulle persone e sugli individui, invece di rimanere presso le imprese come si ha quando prevalgono le strutture di mercato monopolistico e oligopolistico»[5]. In questa frase mi sembra convergano in modo sintetico più idee. In quanto visione del mondo la competitività fa parte di una cultura, dà forma ad una coscienza nel senso più tradizionale di Building e pertanto orienta azioni e scelte. E, insieme, viene comunicata come stile di vita, diviene modello trasmissibile aperto alla conoscenza e al cambiamento cosicché si scontra con la logica unidirezionale e direttiva del monopolio.

Una visione del mondo in sintonia con le nuove modalità di informazione e comunicazione messe in rete dal World Wide Web e dalle nuove tecnologie, ma anche una componente ereditaria nella storia del capitalismo che “condanna” l’imprenditore a far fronte alla concorrenza con iniziative continue[6].

 

L’innovazione è diventata la religione industriale del XX secolo. Le imprese la vedono come lo strumento chiave per aumentare profitti e quote di mercato. I governi si affidano a essa quando cercano di migliorare l’economia. Nel mondo, la retorica dell’innovazione ha recentemente rimpiazzato quella dell’economia del benessere, presente dal secondo dopoguerra. E’ la nuova teologia…[7].

 

 

Le maggiori possibilità di accesso alle informazioni che si presentano sempre più come un bombardamento continuo e, nello stesso tempo, la necessità di espansione commerciale determinata dalla «fine della geografia»[8] hanno determinato nuovi orientamenti valoriali che tengono conto di quello che è stato definito “capitale intellettuale”, ovvero di quelle particolari combinazioni tra locale e globale che si riferiscono alle conoscenze, alle idee, alle risorse immateriali e intangibili[9]. Le informazioni debbono assumere un senso e pertanto essere filtrate in modo coerente ad una vision elaborata dagli attori dell’innovazione con il supporto delle tecnologie[10].

La convinzione prevalente, diretta a promuovere l’innovazione nelle sue diverse sfaccettature, guarda alle persone, alle relazioni, all’organizzazione come risorse imprescindibili. Una convinzione che ha scavalcato anche le ottimistiche previsioni di tipo positivista legate alla nascita dell’hi-tech, vista non più in modo neutrale e come la soluzione esclusiva, ma come un innesto in un sistema complesso. «La tecnologia dovrebbe essere considerata una commodity che bisogna mettere a disposizione di chi vuole affacciarsi con spirito imprenditoriale alle continue sfide che impone il mercato» ovvero può essere considerata solo uno dei tre insiemi di intersezione che definiscono l’area d’innovazione insieme al mercato e alla creatività[11].

L’intangibile rappresenta il valore aggiunto, ancora difficile da misurare in termini quantitativi[12], perché l’innovazione «frutto del capitale umano che ne è l’asset principale»[13] raggiunga il risultato sperato a livello di competitività.

 

L’innovazione deriva dalla capacità di fare e di produrre in modo migliore, più rapido e meno costoso, ovvero di fare e produrre cose nuove. Pertanto, l’innovazione non riguarda solo prodotti e processi, ma anche l’assetto organizzativo. L’innovazione è l’insieme delle attività scientifiche, tecnologiche, industriali, organizzative, finanziarie e commerciali che sfociano nell’introduzione di un prodotto nuovo (o migliore) oppure di un apparato e/o processo di produzione nuovo (o migliore). L’innovazione non è «un aspetto» dell’impresa, riducibile appena alla ricerca e s viluppo o alle nuove tecnologie. E’ una dimensione che riguarda ogni area dell’impresa e la natura stessa dell’impresa. Creatività, rischio, conoscenza, fiducia, complessità, ecc.[14].

 

Il nuovo punto di vista è stato fatto proprio dalla Comunità Europea che ha fissato nel consiglio europeo di Lisbona del marzo 2000 alcuni obiettivi riferiti all’implementazione dell’occupazione agendo sull’economia della conoscenza, sull’investimento nelle persone, su un’azione di trasparenza dei servizi finanziari al fine di rendere la crescita economica sostenibile e facilitare la coesione sociale[15]. Più tardi, nel 2008, il Consiglio Europeo di Primavera ha avviato il rilancio della strategia di Lisbona con il documento “Lavorare insieme per la crescita e l’occupazione”[16], dove tra i punti rilevanti compaiono

-     l’integrazione normativa a livello mondiale e la cooperazione internazionale;

-     l’azione di politica europea e nazionale per eliminare oneri superflui;

-     la costituzione di poli finalizzati all’innovazione finanziati dall’UE «che prevedano la partecipazione di piccole e medie imprese operanti nel campo dell’alta tecnologia e di università»;

-     la promozione dell’”eco innovazione” adottando modelli di produzione e di consumo rispettosi dell’ambiente e delle risorse disponibili specie nel campo dei trasporti e dell’energia;

-     la volontà di modernizzare i sistemi di protezione sociale dei singoli Stati;

-     la volontà di investire nel capitale umano a livello di formazione/istruzione[17].

Lo spirito dell’iniziativa è quello di rafforzare il partenariato tra gli Stati membri, laddove si evince una debolezza nell’azione politica a sostegno dell’innovazione, creando nuove sinergie in linea con i nuovi orientamenti che vedono l’innovazione come il fuoco di più dinamiche.

Nonostante la resistenza da parte di molte aziende e soprattutto di quelle che gravitano intorno al made in Italy l’idea di “scommettere” sulle intelligenze e, in generale, sul capitale umano si sta facendo largo come valida alternativa al depauperamento sociale, economico e finanziario.

Nel tentativo di quantificare il capitale intellettuale Esposito ha tracciato una tassonomia relativa ad uno studio specifico riferito alla camera di commercio di Roma che copre tre aree, del patrimonio umano, del patrimonio organizzativo, del patrimonio redazionale.

Componenti della prima sono: conoscenza delle persone, competenze e capacità dei dirigenti, competenze e capacità dei dipendenti, qualità del lavoro e opportunità di crescita. Della seconda: cultura, valori e comunicazione interna, infrastrutture di conoscenza, creatività e propensione all’innovazione. Della terza: relazioni esterne, orientamento all’utenza, comunicazione esterna.

Una tipologia che ci consente di collocare tra conoscenza e comunicazione il fattore “creatività”, considerata «una condizione necessaria ma non sufficiente a che si generi una soluzione innovativa. La creatività è il carburante di cui si alimenta un ambiente innovativo»[18].

Quidintangibile, crocevia di tre dimensioni individuate da Massimiliano Cannata nel capitale relazionale, umano e organizzativo, «asset strategico straordinario per l’impresa che si apre al terzo millennio»[19].

L’innovazione, dunque, che può essere compresa già come valore in sé, chiama in causa altri valori di governance, come il recupero della diversità[20] in un’ottica di valorizzazione, la formazione e l’inclusione sociale e lavorativa, il controllo di forme di potere non emarginanti.

Con l’esigenza di recuperare il senso delle proprie azioni e della vita stessa è in atto un intenso dibattito sulle possibilità di regolare su basi etiche la prassi economica e, nello stesso tempo, si sviluppano strategie che possano utilizzare in modo creativo l’esistente. Si tratta, cioè, di rompere nel contempo il possibile circolo unidimensionale che lega l’innovazione al profitto. Si prende in considerazione il ruolo normativo di un’etica pubblica all’interno dei diversi campi scientifici e processi innovativi, tenendo conto che «è diventato improrogabile imparare a vivere l’unità nella diversità»[21].

Si tratta di riformulare la teoria stessa dei diritti umani, fondata sulla dignità psico-fisica della persona, sulla libertà, sullo sviluppo delle capacità umane, sulla solidarietà, sul rispetto per le generazioni future. Sulla salvaguardia dell’ambiente, e sulla prospettiva di uno sviluppo sostenibile, in cui l’innovazione non sia a discapito dei più deboli e svantaggiati[22].

 

Pertanto - riteniamo con Marina Calloni - l’’innovazione non si può misurare solo in termini intrinseci, relativi al quadro aziendale, ma anche sulla base della ricaduta sociale e culturale come «produzione di nuovi quadri di riferimento concettuali, nuovi schemi interpretativi che trasformano i modi di definire la realtà e di tipizzarla»[23].

E, d’altra parte, nella scia del knowledge management, l’impresa è vista «come sistema cognitivo, riconosce l’importanza dei processi relativi alla produzione, trasformazione e distribuzione della conoscenza e implementa un sistema tecnologico e organizzativo per strutturare e sistematizzare questi processi»[24].

In questi rimandi continui tra impresa e territorio, diventa sempre più pregnante la ricerca di un’etica che restituisca, oltre ad una misura dei comportamenti economici, il senso della condivisione. Non a torto si parla sempre più spesso di formazione delle risorse umane. Lo sottolinea con vigore Panzarani nella sua intervista a Cannata anche con l’obiettivo “utilitaristico” di dotare l’individuo di categorie per comprendere i cambiamenti in atto sviluppando capacità critiche, di controllo, di scelta decisionale, privilegiando la dimensione “organicistica” dell’impresa anziché quella meccanicistica.

Se l’economia rimane la strada del benessere l’uomo contemporaneo non può fare a meno di agire in modo sistemico recuperando contro la globalizzazione aspetti di “mondializzazione”[25] ovvero di scambi continui anche perché

«il processo di produzione di nuova conoscenza non potrebbe riprodursi a livello locale se non esistesse un meccanismo che consente di sposare la conoscenza esplicita, codificata, che circola nella rete globale, con la conoscenza tacita, contestuale, del singolo sistema locale. Questo meccanismo, che è poi l’applicazione del sapere scientifico e tecnologico alla risoluzione dei problemi della vita e dell’industria, ha un ruolo essenziale nella generazione dei vantaggi competitivi, in quanto dal suo esito dipende la sopravvivenza e lo sviluppo delle imprese che costituiscono il sistema locale, e dello stesso contesto locale nel suo complesso. Non si tratta di un problema ‘platonico’ di apprendimento, ma di un problema pratico di sopravvivenza economica. Dalla quale dipende poi anche la sopravvivenza sociale e culturale»[26].

 

A questo punto ci sono tutti gli ingredienti per poter parlare di “network”. Le capacità di poter tenere il passo con il mercato internazionale dipende dal dinamismo dell’impresa a livello di management, formazione, organizzazione, interazione con l’ambiente. Filippo Bianchi riporta in modo sintetico il punto di vista del network management:

«La soluzione ottimale sarebbe un sistema dinamico che riconosca automaticamente l’evoluzione degli scenari di mercato e fornisca i migliori contenuti informativi a tutti gli individui coinvolti nei processi correlati. L’aspetto positivo è che l’obiettivo è chiaro ed evidente, quello negativo è che, un sistema di questo tipo è, ad oggi, del tutto ideale. L’unica possibilità è iniziare ad adottare le componenti tecnologiche e applicative esistenti, gli strumenti di comunicazione collaborativi che favoriscono l’acquisizione e lo scambio di conoscenza, l’interazione finalizzata e l’apprendimento continuo»[27].

 

Nelle fasi di scambio il soggetto/cliente/manager/dipendente/utente porta il proprio contributo per «uno spostamento di focus: dal progettista all’utente, dal centro alla periferia»[28]. Il sistema, pertanto, nel valorizzare l’intangibile, si presenta come inclusivo e integrativo di tutte le componenti; non vi dovrebbero essere spazi di marginalità o di sofferenza/insofferenza da parte di persone o gruppi sociali.

D’altra parte, esperienze di distretti industriali, come sistema di imprese, che hanno sperimentato strategie[29] in rete hanno anche potuto esibire biglietti vincenti nella corsa all’innovazione in competizione con i Paesi dell’Est. A questo proposito Vignali sottolinea che

I network sono diventati il modello di sviluppo industriale di tutte le economie in (forte) sviluppo. … Ovunque stanno emergendo e si stanno consolidando i cluster come modello di sviluppo industriale più adeguato alle condizioni attuali della competizione. Non solo gli Stati Uniti, ma anche Israele, Irlanda, India, Cina e Brasile si sono avviati su questa strada, e non senza grandi benefici e promesse per l’economia e la società. Il motore più significativo dell’innovazione discende dalle relazioni e dai collegamenti che si stabiliscono tra i differenti attori del sistema dell’innovazione. … I network di innovatori, attingendo conoscenze e altre risorse da una molteplicità di attori, costituiscono il fattore più potente del progresso tecnologico. Il passaggio ulteriore è la sfida costituita dalla creazione di “reti-di-reti”: la capacità di integrare reti diverse, di gestire cioè grappoli di interconnessioni, secondo logiche di flessibilità, di territorialità e di a-specificità[30].

 

Il modello di distretto per antonomasia lo ha fornito l’esperienza californiana della Silicon Valley. Una serie di combinazioni a livello istituzionale, culturale e industriale mixati da una buona dose di intraprendenza e competenze tecnologiche ha dato vita ad una “interpretazione” nuova nel fare impresa. La sperimentazione cosiddetta cluster si è rivelata strategica nel supportare anche momenti critici nel passaggio, ad esempio, dal settore delle telecomunicazioni a quello biomedico[31]. Dalla conoscenza e da forme comunicative integrate e flessibili si è andata consolidando un’esperienza che convalida il peso dell’intangibile nei processi innovativi, ma anche l’aforisma di Oscar Wilde, ripreso da Panzarani, secondo cui «il vero mistero del mondo è il visibile, non l’invisibile».

 

 

 

 Scuola, luogo d’innovazione e per l’innovazione?

 

«Il capitale umano in senso pieno e proprio… è esito dell’educazione»[32]. Discriminante per il passaggio dall’economia tradizionale alla knowledge economy o, meglio alla knowledge society diventa, in quest’ottica, il capitale umano, l’immateriale e intangibile che sfugge a misurazioni quantistiche e meccanicismi, ma che proprio per questo rientra nell’area dell’educazione «frutto di amore all’ideale e di educazione… Il mondo del lavoro e della produzione non chiede robot, chiede uomini capaci di ragionare, capaci di prendere coscienza di tutti i fattori, capaci di rischiare”[33].

 

Se «il metodo dell’innovazione consiste nell’apprendimento»[34] l’anello più debole della catena formativa sembra proprio la scuola. Anche in un contesto di autonomia, come quello avviato dalla legge 59/1997, risultano ancora sporadici gli interventi a favore di una mentalità aperta in senso euristico all’innovazione; interventi ridotti ad esperienze di stage o informazioni generali sull’attività economica, mentre siamo ancora lontani da curricoli che non riducano l’attività di apprendimento a semplice acquisizione di nozioni.

La tendenza è prevalentemente quella di mantenere standard di omologazione culturale. Lo dimostra l’eccessiva attenzione ai programmi più che ai metodi, all’acquisizione di competenze disciplinari più che competenze trasversali da trasferire in luoghi e tempi diversi. Raramente, e solo per iniziative di singoli docenti, si riesce a promuovere “l’apprendere ad apprendere”[35], mentre una gran parte di studenti che per vari motivi non si adegua ai modi scolastici rischia di rimanere fuori dall’ambiente lavorativo. Dimentichiamo che l’istituzione scolastica promuove la formazione dell’uomo e del cittadino nonché il suo pieno inserimento sociale e lavorativo.

Fuori dalle aule scolastiche rimane il pensiero critico e creativo anche a causa di metodi di insegnamento tradizionali quanto obsoleti[36], così come le informazioni sulla contemporaneità, mentre vengono imposti uniformemente a tutti stesso programma, stesso metodo, stesso contenuto, fatta eccezione per i diversabili.

Il sistema scolastico italiano non riesce, pertanto, a mettersi in rete con il sistema produttivo, ma neanche a percepire le esigenze di formazione del territorio, uno dei motivi principali per cui era stata varata la legge sull’autonomia. Possiamo, tra l’altro, evidenziare una contraddizione palese tra i modelli organizzativo e di apprendimento prevalenti nel sistema scolastico, rimasti di tipo gerarchico e poco flessibili al cambiamento, e quelli che il mondo dell’economia sta cautamente cercando di implementare centrati, invece, sul coordinamento, la delega e il decentramento decisionale. Per quanto riguarda la ricerca, poi, l’Italia non solo registra mastodontici ritardi nei settori scientifici e tecnologici, quanto rimane arretrata sia nella ricerca dei settori delle scienze linguistiche e sociali, sia nella comunicazione dei risultati raggiunti. Ritengo siano limiti responsabili della lentezza con cui riusciamo a promuovere l’innovazione, ma anche dell’insofferenza e disagio che si allargano a macchia d’olio nella gioventù italiana.

Una scuola lontana sia dagli orizzonti degli studenti che da quelli dell’economia, incapace di offrire modelli e percorsi di crescita fuori da logiche gerarchiche o prescrittive. Uno scollamento con ritmi e problemi della società che mantiene lontana l’istituzione scolastica da quell’essere “prototipo di esperienza maturante” anche in situazioni di conflittualità e di emergenza dettate da comportamenti di disadattamento, abbandono e insuccesso scolastico[37].

La scuola sembra aver perso consapevolezza del proprio ruolo per una serie di motivi e, a maggior ragione, delle dinamiche socio-culturali ed economiche non considerando che «l’innovazione e la creatività hanno bisogno di complessi meccanismi di trasmissione per permettere ad un sistema paese o ad un sistema locale di divenire fonti stabili di reddito e di occupazione»[38]. Le lamentele sulla disoccupazione e sui tanti disadattamenti giovanili dovrebbero convergere anche in questa direzione; la scuola come fuoco della cultura dovrebbe rispondere con efficacia alla richiesta di nuove funzionalità e, soprattutto, essere messa in grado di farlo dai governi nazionali. «Il ruolo della cultura non si esaurisce nel passatempo più o meno colto, ma va cercato anche e soprattutto nella sua funzione di attivatore sociale, di straordinario momento di catalisi del pensiero e nella sua capacità di trasformarlo in un progetto di senso affascinante, condiviso, capace di creare e di trasmettere senso di identità»[39]. Con la strategia di Lisbona la sfida è stata lanciata. Si tratta di recepire nella concretezza degli interventi che non è mutato solo il rapporto individuale con la conoscenza, ma tutto l’impianto epistemologico della modernità[40]. Ma siamo solo agli inizi.

 

 

Conclusioni

 

Gli scenari che si configurano a partire dal concetto di “innovazione” sarebbero dunque alquanto ottimisti, a patto che entrino in gioco tutte le altre variabili che rendono questo concetto tanto appetibile dal punto di vista della crescita e dello sviluppo economico e sociale. Creatività e interazioni sia interne che esterne all’azienda devono infatti fare i conti con parametri di ordine etico. La governance dell’innovazione non dipende infatti solo da fattori informativi e dall’appropriazione di competenze tecnologiche, ma è legata al rispetto della persona umana, all’accoglienza delle diversità, al dialogo e allo scambio di informazioni. Possiamo dire, per quanto suggerito da Giannino Piana, il superamento del principio formale di maggioranza, il ricorso ad un’etica della responsabilità che sappia interagire con il diritto coinvolgendo le forme di potere che si sviluppano a più livelli, dal locale al globale.

Sul piano dell’innovazione, poi, si possono creare piattaforme di dialogo con l’Islam al fine di sciogliere al momento insuperabili nodi di conflittualità se è vero come afferma Khaled Fouad Allam che «In realtà tutta la filosofia dell’islam, da Averroè in poi, dimostra come la questione dell’innovazione abbia costituito il paradigma della cultura islamica proprio perché la relazione fra creature e creatore è interpretata come una relazione di testimonianza e non di obbedienza. La testimonianza nell’islam non è passiva, ma obbliga l’uomo a un continuo interrogarsi e alla continua presa di coscienza dei propri limiti, ma anche delle proprie capacità innovative»[41].

Di grande responsabilità sono investiti, non solo le imprese, quanto i governi e, soprattutto, l’istituzione scolastica, nel tentativo di formare un adulto capace di rispondere alle esigenze di flessibilità, creativo e che sappia coniugare la regola con il non convenzionale in una prospettiva di consapevolezza nell’interazione con i cosiddetti “artefatti cognitivi”[42], competente nella gestione di sistemi aperti, in grado di gestire, in collaborazione con gli altri attori dello sviluppo, la complessità sociale.

L’economia della rete restituisce un ruolo di protagonista all’uomo solo se si supera quel rallentamento della valutazione dell’intangibile – avvisa Panzarani – rimasta intrappolata nella «irrisolvibile vischiosità dei meccanismi burocratici»[43].

 


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[1] Z. Bauman, Dentro la globalizzazione, Roma-Bari, Laterza, 20069, p. 75

[2] Mi riferisco a forme di liberalismo à la Rawls o à la Dahrendorf, a visioni olistiche dello strutturalismo e post-strutturalismo, alle analisi e proposte di Amartya Sen (capabilities)

[3] In sintesi R. Vignali, Eppur si muove. Innovazione e piccola impresa, Milano, Guerini e Associati, 2006, pp. 25-26: «Secondo la teoria tradizionale, essendo produttività e crescita una funzione della combinazione di tre fattori produttivi: terreno, forza lavoro e capitale, ciò che non trova spiegazione in questi tre fattori viene collocato all’interno di un «recipiente» generico («residuo»), di dimensioni elevate, ma che la teoria non è in grado di spiegare, per cui anche la tecnologia viene ricompresa in questa categoria. Il limite fondamentale di tale teoria consiste nell’incapacità di spiegare adeguatamente la dinamica economica. Poteva tuttavia sembrare funzionare nell’economia fordista, caratterizzata da mercati locali e stabili, da ritmi lenti nell’innovazione, da prodotti «semplici» e da forti interventi statali. Al contrario, l’economia odierna è caratterizzata da un mercato globale e turbolento, dalla velocità dell’innovazione, dalla complessità dei prodotti e, soprattutto in Europa, da limitati poteri di intervento degli Stati Nazionali. In tale contesto, hanno preso consistenza approcci diversi rispetto a quello tradizionale, che fanno leva sugli asset immateriali e, in particolare, sul capitale umano, inteso non solo come fattore di miglioramento della capacità produttiva e come prodotto dell’istruzione, ma prima di tutto come educazione».

[4] Non mi riferisco solo all’innovazione di prodotto, quanto all’innovazione di processo secondo la recente letteratura e, pertanto non solo alle condizioni di discontinuità rispetto all’esistente, ma anche nel cambiamento, nella produzione, nell’organizzazione, nel servizio, nel business.

[5] G. Scanagatta, Competere è un valore dell’etica, Il Sole 24 Ore, 6 maggio 2008, p. 13

[6] P. Del Debbio (a cura di), Vivere è scegliere. Scritti di libertà, Novara, Fondazione Achille e Giulia Boroli, 2006, p. 17 dove ripercorrendo le fasi degli inizi del capitalismo afferma: «L’imprenditore capitalista è “condannato” all’innovazione».

[7] Economist, 1999

[8] Z. Bauman, Dentro la globalizzazione, op. cit., p. 15 recupera in modo efficace una citazione di Paul Virilio per evidenziare la fine di concetti di spazialità e di confine resi sempre più labili dalla globalizzazione.

[9] V. D. Esposito, Il bilancio del capitale intellettuale pubblico: considerazioni a margine di un’esperienza, in M. Burgarella (a cura di), Human capital, n. 8/2006, Ed. EDK, dove, tra l’altro, evidenzia nel nome della new economy «il passaggio definitivo da un’economia fondata sulle risorse produttive e sui capitali a un’economia basata sulla conoscenza, sulle idee, sulle risorse immateriali e intangibili».

[10] T. H. Davenport, Innovazione dei processi. Riprogettare il lavoro attraverso l’information technology, Milano, Franco Angeli, 2007, cap. 10, pp. 215-232

[11] N. Ceccon, Resistenze culturali all’innovazione, in www.vistaenergetica.com

[12] Per le problematiche legate alla redazione di un bilancio sociale con voci che indichino il valore del capitale intellettuale impegnato in un’azienda vedi V. D. Esposito, Il bilancio del capitale intellettuale pubblico…. , op. cit.

[13] R. Vignali, Eppur si muove…, op. cit., p. 27

[14] R. Vignali, Eppur si muove…, op. cit., p. 24

[15] Dal sito www_ipi_it-strategia lisbona.htm

[16] http//europa.eu.it/growthandjobs/

[17] A questo proposito: «Il capitolo «Investire maggiormente nel capitale umano tramite un miglioramento dell’istruzione e delle competenze» comprende varie misure che si rivolgono specificamente alle giovani generazioni e mirano a dotare tale categoria del capitale umano e delle qualifiche necessari in un’economia dinamica basata sulla conoscenza. Ne costituiscono un esempio l’aumento e la maggiore efficacia degli investimenti destinati all’istruzione, la riduzione degli abbandoni e degli insuccessi scolastici e l’aumento della partecipazione a corsi di studio matematici, scientifici, tecnici e di ingegneria. Anche le misure previste dal capitolo «Aumentare e migliorare gli investimenti destinati alla ricerca e allo sviluppo» — connesse alla capacità di accrescere il capitale umano nell’economia — andranno a vantaggio delle giovani generazioni offrendo nuove prospettive di carriera».

 

[18] R. Panzarani, Il viaggio delle idee. Per una governance dell’innovazione, Milano, Franco Angeli, 20062, p. 32. Cfr. La governance dell'innovazione nelle organizzazioni dello stesso autore in www.fondazionebassetti.org/it

[19] R. Panzarani, Il viaggio delle idee…, op. cit., p. 22

[20] R. Florida della Carnegie Mellon University, La nascita della nuova classe creativa. Stile di vita, valori e professioni, Milano, Mondatori, 2003, ha proposto un approccio, il modello delle tre T, che offre una chiave di lettura per capire il sottosviluppo in certe aree o l’attrattiva di altre in base alla concentrazione di alti livelli di human capital. Secondo Florida le tre dimensioni Tecnologia, Talento e Tolleranza influiscono sinergicamente e in modo determinante sul successo imprenditoriale di un territorio. La loro combinazione favorisce la creatività nel suo carattere multidimensionale. L’innovazione, secondo questo punto di vista, nasce dall’intersezione di idee e aree diverse, da quell’apertura verso la diversità che produce scambi a diversi livelli, culturale, del sapere, degli stili di vita, dell’impresa.

[21] R. Panzarani, Il viaggio delle idee…., op. cit., p. 81

[22] M. Calloni, Il nuovo e le innovazioni: dalle teleologie alle biotecnologie. Quale ruolo per l’etica pubblica?, in Giuseppe Ardrizzo (a cura di), Governare l’innovazione. La responsabilità etica, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, p. 103

[23] Idem

[24] F. Bianchi, Knowledge management, in http://www.psicolab.net/index.asp

[25] Così S. Tagliagambe, Gli aspetti etici del problema dell’innovazione, in Giuseppe Ardrizzo (a cura di), Governare l’innovazione…, op. cit., p. 65

[26] S. Tagliagambe, Gli aspetti etici del problema dell’innovazione, in Giuseppe Ardrizzo (a cura di), Governare l’innovazione…, op. cit., p. 67

 

[27] F. Bianchi, Il network management, in www.psicolab.net

[28] Idem

[29] R. Panzarani, La complessità e il business: contesti competitivi e processi di innovazione nella "adptive enterprise", in www.scienzaonline.net, parla di strategie adattive o Adptive enterprise riportando un esempio: «Christofer Meyer e Stan Davis nella loro pubblicazione "It's Alive" (New York, Edizioni Crown Business, 2003), indicano le pratiche che dovranno essere coltivate per rendere l'organizzazione adattiva e rispondente alla turbolenza del mercato, senza però dimenticare la propria identità di riferimento. Gli autori fanno riferimento a sei principi in base ai quali il sistema organizzativo dovrà rivedere la propria strategia, variandone la combinazione a seconda della propria storia in un cocktail-soluzione unico e personale in risposta alle scommesse dell'ambiente esterno». Ed, inoltre, di knowledge management, che «si focalizzano in particolare su quattro aree di intervento: innovazione, reattività rispetto ai segnali che provengono dall'esterno, produttività, competenza individuale e di gruppo».

[30] R. Vignali, Eppur si muove…, op. cit., p. 146

[31] Dal sito http://newton.corriere.it/index.shtml

[32] R. Vignali, Eppur si muove…, op. cit., p. 88

[33] R. Vignali, Eppur si muove…, op. cit., pp. 88-89 rifacendosi a Giorgio Vittadini

[34] R. Vignali, Eppur si muove…, op. cit., p. 108

 

[35] B. Ray, Ripensare le competenze trasversali, Milano, Franco Angeli, 2003

[36] F. Nanetti, Il cambiamento intenzionale, Bologna, Pendragon, 2007, pp. 171-186

[37] F. Bonadiman, Il cattivo studente, Roma, Armando editore, 2007, pp. 59-78

[38] P. L. Sacco, Il distretto culturale evoluto: competere per l’innovazione, la crescita e l’occupazione, in www.aiccon.it

[39] Idem

[40] R. Panzarani, Il viaggio delle idee…., op. cit., p. 25

[41] K. F. Allam, L’innovazione come esperienza dei limiti, in Giuseppe Ardrizzo (a cura di), Governare l’innovazione…., op. cit., pp. 164-165

[42] Mi riferisco alla teoria di Marshall McLuhan, tracciata nel testo Gli strumenti del comunicare, del 1964 e pubblicato nel ’67 da Il Saggiatore. Cfr. F. Pinto Minerva-R. Gallelli, Pedagogia e post-umano, Roma, Carocci, 2004, pp. 85-88

[43] R. Panzarani, Il viaggio delle idee…., op. cit., p. 23


Testo rivisto e pubblicato in M. Murzi - I. Pozzoni (a cura di), I moderni orizzonti della Scienza e della Tecnica (vol. II), Limina Mentis Ed., Villasanta (MB) 2015