Banditi e schiave. I femminicidi

di Arcangelo badolati e Giovanni Pastore

Ed. Pellegrini, Cosenza

Ma quante sono le forme di femminicidio? Già il contatto con la copertina di questo libro pone una domanda impellente. Ma le domande si accavallano man mano si va avanti con la lettura perché si vorrebbe capire da dove nasce tanta brutalità sul genere femminile. E la lettura di queste pagine drammatiche raccontate da due penne rilevanti del nostro giornalismo contemporaneo, oltre che calabrese, fa rabbrividire. Raccapriccianti le storie di violenza, ancora più abominevole comprendere quello che ruota intorno a noi facendoci sentire impotenti. Disarmate/i forse, ma indignate/i sicuramente. Seppure attraverso uno stile giornalistico schietto e semplice nella forma, gli autori riescono a coinvolgere il lettore e la lettrice. Il giudizio di valore non è un optional; il fatto nudo e crudo apre ad una riflessione critica di condanna. Non si può fare altrimenti di fronte a tante tragedie provocate da una mentalità criminale ormai globale, tesa allo sfruttamento economico delle persone, che trova le sue radici nella tradizione albanese legata all’antico codice comportamentale del Kanun.

 

A memoria ricordo quei volti e quei corpi mezzi nudi, infreddoliti, incontrati sulle strade periferiche che fino allo scorso anno mi portavano sulla Statale 106 fino alla mia sede scolastica. Ogni giorno, alla stessa ora, stelle perse di un firmamento ignoto che si offrivano per un quarto d’ora di piacere mentre con i colleghi dei miei chilometrici viaggi ci domandavamo le ragioni di quel mercimonio di ragazzine dalla pelle chiarissima di provenienza romena, moldava e ucraina o dalla pelle scura, delle regioni africane. Sostavano sui bordi della strada a volte sedute su blocchetti di cemento a volte su una sedia di plastica e con un ombrellino, mentre a volte lasciavano le loro tracce facendo capire che erano “occupate” in un’auto poco più in là. Avvertivamo forte il senso di ingiustizia che passava per quelle vite. Erano impressioni ed emozioni a pelle, allora non conoscevamo, se non per sentito dire, i retroscena. Agghiaccianti retroscena. Tutti svelati in questo libro-inchiesta da due intellettuali della nostra Calabria che hanno dichiarato guerra all’omertà. E, pertanto, accanto a quelle forme di femminicidio parentale che offende in forma ormai quotidiana anche il benpensante, quello pronto a giustificare l’assassinio “per amore”, ne compare un altro tanto più efferato perché assume i caratteri della sistematicità e della normalità. Quello creato in un “laboratorio criminale” d’oltre Adriatico, albanese.

Badolati e Pastore si soffermano, infatti, su questo fenomeno che colpisce l’Italia e, in particolare, Puglia e Calabria ionica contestualizzandolo all’interno di dinamiche di potere tra cosche, evidenziandone la cultura di fondo, le aspettative che hanno radici nella tradizione.

 

Il femminicidio, risultato estremo di una repressione firmata dalla violenza criminale verso le donne che tentano di ribellarsi, s’incunea in un contesto di traffici clandestini di droghe ed armi. Effetto di un assoggettamento umano divenuto in diversi anni traffico di persone nelle forme riconosciute dalla normativa sulla base della Convenzione ONU sulla criminalità organizzata transnazionale (Palermo, 12 - 15 dicembre 2000) come smuggling (attività di favoreggiamento dell’emigrazione clandestina) e trafficking. Quest’ultimo aspetto, nonostante i contorni foschi e in continua mutazione, è stato comunque inteso come “il reclutamento, il trasporto, il trasferimento, l’ospitare o accogliere persone; mediante l’impiego o la minaccia di impiego della forza o di qualsiasi altra forma di coercizione, di rapimento, frode, inganno, abuso di potere sfruttando una posizione di vulnerabilità (…); a scopo di sfruttamento della prostituzione altrui o di altre forme di sfruttamento sessuale, lavoro forzato, schiavitù o pratiche analoghe, servitù o prelievo degli organi”.

Il testo di Badolati e Pastore prende, dunque, in considerazione gli aspetti di quest’umanità ai margini mettendoli in relazione con la normativa e diversi dossier, tra cui il rapporto dell’Europol, l’analisi del servizio segreto italiano, la relazione del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Lecce, dott. Cataldo Motta. E proprio da quest’ultima, insieme alla necessità di normative più” incisive ed efficaci”, si evince una debolezza legislativa, non l’unica, nelle cui pieghe riesce a prendere forza la condotta criminale di assoggettamento delle persone. La violenza ed efferatezza delle condotte criminali dell’assoggettamento delle persone al momento non rientra, infatti, nella fattispecie dell’associazione di tipo mafioso, ma vengono fatte risalire a singoli atti di sopraffazione, diversamente da quanto previsto dall’art. 416-bis.

Una considerazione importante, visto che i due autori sono giunti al fenomeno dei femminicidi attraverso la cronaca giudiziaria e la denuncia dei traffici della ‘ndrangheta. E, da questo punto di vista, gli esiti di operazioni della Dda di Catanzaro - come Ligabue, Anije, Harem ecc. - che mettono in luce la difficoltà e la lentezza delle rogatorie internazionali per l’arresto di imputati; l’interazione con gli altri traffici illegali; la ricerca dell’efferatezza nella subcultura dominante che ha trovato terreno fertile durante la dittatura di Enver Hoxha e nell’attuale fragilità governativa; l’analisi della gestione delle consorterie delinquenziali albanesi e i modi in cui sono riuscite a strutturarsi e rafforzarsi all’interno di territori calabresi dominati da clan della ‘ndrangheta.

 

«Una delle caratteristiche che rende impenetrabili i clan degli albanesi – evidenziano gli autori – è la interscambiabilità e la fungibilità dei ruoli, per cui chi, in un dato momento, opera in Albania, in un periodo successivo svolge i suoi compiti in Italia, e viceversa, senza che la struttura ne risenta». Così riescono a sfuggire ai controlli, così riescono ad attivare «una inquietante saldatura con la delinquenza bulgara, moldava e romena», così riescono a mantenere in vita la tratta delle donne.

 

Le donne, le loro testimonianze. Rappresentano la parte più dolorosa dell’inchiesta. “Qualcosa di superfluo nella famiglia” recita il codice Kanun (art. 29) improntato sulla regola “occhio per occhio, dente per dente”, merce da sfruttare sul territorio italiano da criminali senza scrupoli. Ma è attraverso il coraggio della denuncia della loro schiavitù che gl’inquirenti sono riusciti a penetrare nell’arcano mondo della criminalità albanese, pronta a collaborare con quella locale perché orientata al denaro più che al prestigio e al dominio del territorio. Schiavitù. Perché il padrone con l’acquisto assume anche il diritto di vita e di morte. Queste le caratteristiche di uno sfruttamento messo in atto fin agli inizi degli anni ’90 che gli autori tracciano senza lasciare dubbi e con il supporto di una meticolosa documentazione: «Il soggiogamento totale delle vittime, condotte in Italia nella migliore delle ipotesi sono l’inganno e il miraggio di un futuro migliore, nella peggiore e più frequente con la violenza; il totale asservimento ai voleri dei protettori fino ad arrivare al “ius vitae ac necis”, al diritto di vita e di morte, frutto della cultura dettata dal Kanun, le continue violenze fisiche e morali subite dalle ragazze, quale metodo per affermare la forza e la supremazia; il “sequestro” dei documenti di identità delle vittime da parte dei protettori/”domini” con il duplice fine di impedire il ritorno in Patria e la denuncia alle forze dell’ordine; l’utilizzo dei documenti come “titoli di proprietà” per la cessione delle ragazze ad altri soggetti o ad altri gruppi. Ed infine lo strumento di pressione più efficace per garantire attaccamento a “lavoro” e silenzio: la minaccia di ritorsioni ai familiari delle ragazze che sono rimati in Albania. Fino alla concretizzazione delle minacce, in caso di sgarro, sia nei confronti dei familiari sia nei confronti delle stesse ragazze» (p. 71).

 

Una questione complessa, dunque, quella dei femminicidi, i cui nodi, nella tragicità che invade “egregiamente” il mondo globalizzato, invitano, comunque - sembrano suggerirci infine gli stessi autori - a ripensare la nostra attualità e l’umanità che siamo.

 

Francesca Rennis